La Musica nel Cinema Thriller: intervista a Marco Werba

La Musica nel Cinema Thriller: intervista a Marco Werba

Marco Werba è una delle voci più interessanti nel panorama cinemusicale italiano di oggi. Con all’attivo titoli come Giallo di Dario Argento, per cui ha vinto tre premi, e Native di John Real che gli è valso un Globo d’oro; si è fatto notare agli amanti del cinema di genere come un degno erede della scuola sinfonica americana. Pronto per essere pubblicato in Spagna è il suo libro “La Música en el Cine de Terror: manual de composición y análisis de partituras” in cui si ripercorre la storia della musica nel cinema thriller attraverso i suoi autori principali – da Bernard Herrmann a Christopher Young – e si dà ampio spazio all’analisi delle partiture, soprattutto quella dell’autore stesso per Giallo.
Per parlare del libro e di molto altro abbiamo incontrato il Maestro Werba. 

Colonne Sonore: Quando hai avuto la prima idea di scrivere questo libro? Come hai deciso di strutturare il lavoro?
Marco Werba: Era da tempo che volevo scrivere un libro su questo argomento perché notavo che effettivamente non c’era una cosa del genere in Italia. I libri che sono stati scritti finora di questo genere sono soprattutto americani: in Italia, sulla musica per il cinema thriller c’è il libro di Claudio Simonetti [“Claudio Simonetti - Il ragazzo d’argento”] ma si tratta di un’autobiografia; per il resto, se la memoria non mi tradisce, credo non ci sia proprio niente. In America ci sono dei libri che in qualche modo somigliano al mio – come quello di Randall Larson [“Music from the house of Hammer: music in the Hammer horror films, 1950-1980”] – ma sono scritti da critici e non da compositori, quindi parlano in maniera generale e strettamente teorica dei compositori che hanno svolto questa attività: senza fare molti esempi di partiture, insomma. Un libro interessante di cui ho citato alcune parti nel mio lavoro è quello di Mauricio Dupuis su Jerry Goldsmith, ma è appunto solo su Goldsmith, un libro molto settoriale. Nel mio manuale, anche se non in maniera approfondita, ho cercato di parlare di molti compositori che si sono dedicati a questo settore molto particolare che è la musica nel cinema di genere, dando spazio naturalmente anche alle mie partiture, ma non prima di aver parlato a dovere di musicisti fondamentali come Bernard Herrmann, Ennio Morricone, e soprattutto solo dopo aver chiarito le differenze tra quelle che io considero le due vere scuole di pensiero della musica nel cinema thriller: la scuola classica, quella di Herrmann, Goldsmith e Christopher Young, e quella moderna, la scuola di John Carpenter in primis. Poi c’è la musica “per contrasto”, come la cantilena infantile in Profondo rosso… Nel libro parlo anche del rapporto compositore-regista, discorso che vale per tutti i generi ovviamente, non solo per il cinema thriller. Credo tuttavia che nel cinema horror, thriller e di fantascienza la musica sia più importante perché aiuta a rendere più credibile le situazioni inverosimili che sono proprie di quei generi. Un altro importante libro che ho citato è “Colonna Sonora: dialoghi, musiche, rumori dietro lo schermo” di Ermanno Comuzio, in cui l’autore passa in rassegna tutti i generi cinematografici e parla anche del silenzio, di quanto esso sia importante all’interno di una colonna sonora. Io ho citato esempi di pause musicali che rendono più efficace il resto del commento; per questo aspetto menziono anche un episodio dell’Ispettore Colombo…

CS: Larga parte del libro è dedicata all’analisi di partiture. Soprattutto negli esempi tratti da Giallo è evidente che è stato dato maggior rilievo alla componente tecnica interna del discorso musicale che non alla sua funzione drammaturgica. Perché questa scelta? Come bilanci questi due aspetti nella composizione di una colonna sonora?
MW: La parte delle analisi delle partiture non l’ho scritta io. Ho voluto affidarla ad altri collaboratori, in particolare a Emiliano Imondi, per restituire al lettore una visione più obiettiva del mio lavoro; è dunque possibile che egli abbia preferito nobilitare l’aspetto tecnico della musica rispetto al suo rapporto con le immagini. In ogni caso, essendo questo quasi un manuale di composizione, sembrava giusto dare maggior spazio all’analisi delle partiture che non alla loro funzione drammaturgica. Riguardo alla seconda domanda, so che alcuni compositori classici che si sono avvicinati al cinema – Ildebrando Pizzetti, Goffredo Petrassi – si sono trovati in difficoltà a lavorare per il cinema perché non erano abituati a lavorare in tempi stretti; credo che Prokofiev abbia chiesto addirittura un anno di tempo per scrivere una partitura cinematografica… La loro difficoltà era dovuta soprattutto dall’essere costretti a scrivere pezzi molto brevi dove le loro ambizioni architettoniche non potevano trovare sfogo, ma anche dal dover vedere la propria musica sovrastata dai dialoghi e dagli effetti sonori. Io sono invece molto abituato a questo perché ancor prima di interessarmi di musica ero un appassionato di cinema. Il mio primo amore è stato il cinema, dunque per me è normale che la musica debba stare a volte sotto gli effetti sonori e i dialoghi; anzi, sempre riguardo al rapporto col filmico, devo dire che molte soluzioni che sono costretto a trovare per esigenze di sincronismo con le immagini – come l’inserimento di battute con ritmo dispari –, finiscono col rendere la musica più varia, più interessante, oltre che ovviamente più difficile da suonare e da eseguire.

CS: Un esempio storico di questo fenomeno è l’uso che Jerry Goldsmith fa dei ritmi dispari, peraltro non tanto per ragioni di sincronismo…
MW: Esatto. Goldsmith ha fatto uso di tali espedienti anche per disorientare lo spettatore, nei film di genere appunto... Ma in generale non c’è nulla che un film possa fare da solo per impedire al compositore di seguire il proprio istinto, di far valere la propria voce in senso strettamente tecnico-compositivo. Mi vengono in mente compositori come Pino Donaggio e Stelvio Cipriani che hanno abilmente aggirato le committenze thriller per scrivere musiche molto romantiche: è il caso di partiture come Piranha di Donaggio, con un adagio triste per archi tutt’altro che pauroso, o Piranha II: The Spawning di Cipriani, che presenta sì brani di suspense ma anche un tema molto drammatico per i titoli di testa e un adagio per le scene subacquee. Sono autori che sono riusciti a far entrare la musica tonale in un ambito horror.

CS: Anche in questo libro, come in tante tue interviste, viene fuori il tuo amore per Logan’s Run (La fuga di Logan) di Jerry Goldsmith, partitura che ti ha fatto notare per la prima volta l’importanza della musica al cinema. Si tratta di una colonna sonora prevalentemente elettronica, mentre il tuo manuale sembra più un vero e proprio elogio dell’orchestra e delle sue risorse…
MW: Devo specificare che non mi accorsi alla prima visione di Logan’s Run dell’importanza della musica nel film. Mi servì una seconda e addirittura una terza visione, proprio perché la musica al cinema viene vissuta a livello inconscio dalla maggior parte del pubblico, anche dagli esperti del settore come alcuni registi: si tende a vivere la musica come emozione data dall’insieme dell’opera audiovisiva.
Per quanto riguarda la componente elettronica, anche Goldsmith in Logan’s Run la utilizza soprattutto far emergere i momenti orchestrali, come nella scena in cui Logan incontra per la prima volta Jessica, con cui nascerà una storia d’amore: l’autore in quel frangente utilizza gli archi proprio per far emergere, all’interno di una città fredda del futuro in cui tutto è computerizzato, un barlume di umanità. L’altra eccezione è quando i protagonisti riescono a fuggire dalla città e scoprono un mondo che non conoscevano; vedono il sole, la natura, la terra, una persona anziana (che nel loro mondo non esisteva dato che morivano tutti a trent’anni). Lì quindi subentra l’orchestra. L’elettronica torna solo quando i protagonisti rientrano nella città per distruggere il computer e liberare l’umanità. Io – com’è chiaro – tra le due scuole di pensiero preferisco quella classica-orchestrale, soprattutto perché apprezzo il lavoro enorme che c’è dietro una partitura orchestrale. Un gruppo rock che si riunisce e improvvisa un brano fa certamente meno fatica di un compositore che crea una musica per l’orchestra; eppure i giovani osannano le partiture rock ed elettroniche per il cinema e disprezzano quelle orchestrali. Questa cosa mi sembra veramente una follia: come puoi disprezzare il lavoro enorme che c’è dietro la partitura orchestrale? I fan di Argento, ad esempio, osannano le musiche dei Goblin – che anche a me piacciono tantissimo, sia ben chiaro – e disprezzano quelle di Keith Emerson, Pino Donaggio, Morricone. C’è innanzitutto un problema di educazione musicale: i giovani conoscono solo quel tipo di musica perché la radio li bombarda con il pop-rock, non sono abituati ad apprezzare la musica classica. Tornando alla mia personale esperienza, cominciai a collezionare colonne sonore a partire da quella di Goldsmith per Logan’s Run, e questa è stata una svolta interessante perché collezionando le musiche di altri compositori cominci a studiare i loro stili; credo che per un compositore che intenda fare questo lavoro conoscere i più importanti autori di musica da film sia fondamentale. Purtroppo nella mia esperienza di insegnante sto notando che questo aspetto è meno scontato di quanto sembra: molti allievi conoscono soltanto i compositori americani più recenti – peraltro superficialmente – e ignorano completamente quelli del passato. Per non parlare di compositori francesi come Georges Delerue, Philppe Sarde, Francis Lai, Maurice Jarre…

CS: I compositori di cui nel tuo libro si analizzano le partiture (Herrmann, Morricone, Carpenter) appartengono a molte generazioni fa. Quali compositori di oggi credi valga la pena di approfondire con la stessa meticolosità?
MW: C’è da dire innanzitutto una cosa: Herrmann, pur essendo stato attivo artisticamente soprattutto negli anni ’50 e ’60, ha scritto una musica che risulta modernissima anche oggi. La sua scrittura è all’avanguardia paragonata sia con quella dei suoi coetanei che con quella delle generazioni successive. E’ un po’ come la musica di Bach messa a confronto con quella di Beethoven: io ho l’impressione che le musiche di Bach siano più moderne di quelle di Beethoven; ascoltando le musiche di Beethoven risulta evidente il periodo storico in cui sono state scritte; quelle di Bach invece sono immortali. Esse hanno una componente architettonica così moderna che in qualche modo sono senza tempo. Forse anche la musica di Herrmann possiede questa componente: è riuscito a comunicare, solo con gli archi, stati di tensione e paura quasi insostenibili. Lo aveva già fatto James Bernard per i film della Hammer ma Herrmann ha portato avanti l’idea in maniera più sistematica per Psycho: in particolare nella “scena della doccia”, dove vengono messi in contrapposizione per la prima volta in maniera così netta i registri più acuti e quelli più gravi di cui può essere capace un’orchestra d’archi. L’unico compositore di oggi davvero specializzato nel genere – così come Herrmann, di cui secondo me può considerarsi un degno erede – è Christopher Young: il suo brano per i titoli di testa di Drag Me to Hell credo sia eloquente in tal senso.

CS: Anche Marco Beltrami potrebbe essere considerato nella cerchia…
MW: Però non è propriamente specializzato in questo genere: ha fatto anche molti action…
 
CS: Nel libro si scandaglia la partitura di Giallo, un lavoro carico di senso del grottesco, sopra le righe e brutale. Quanto è stata importante, ancor prima di vedere il film, la tua esperienza di spettatore del cinema di Dario Argento per l’ispirazione nella composizione?
MW: In Giallo, dei film di Argento precedenti musicalmente c’è ben poco. Il pubblico è stato abituato per molto tempo al sound Rock-progressive dei Goblin, per questo io ho voluto provocarlo con una partitura quasi interamente orchestrale, molto all’americana: qualcuno l’ha giudicata addirittura somigliante a Batman di Danny Elfman, ma ci sono tracce anche di Herrmann, Goldsmith, tutte naturalmente non cercate. L’unico omaggio volontario è al musical The Phantom of the Opera di Andrew Lloyd Webber – una scala ascendente e discendente –, ma non sembra essersene accorto nessuno… C’è sicuramente anche qualcosa di Donaggio e Morricone nel tema d’amore, ma per il resto rimane una musica composta e orchestrata in puro stile americano.
Per Argento il film rappresenta un ritorno alle origini perché vuole essere un giallo e non un horror, anche per questo ho usato l’orchestra e non l’elettronica: i primi tre gialli di Argento avevano partiture classiche di Ennio Morricone. Certo, la mia è una musica molto meno sperimentale; io ho fatto sperimentazione nella partitura ma solo in alcuni momenti. Si tratta di una score molto tematica, forse anche troppo – come si può evincere dall’analisi nel libro – in netta contrapposizione con le score quasi monotematiche della “scuola elettronica”, su tutte quella di Carpenter per Halloween. Questo anche perché Dario Argento, come molti registi con cui ho lavorato, voleva molta musica nel film; ciò mi ha creato un problema perché io preferisco mettere meno musica nel film e valorizzare quella che c’è. Però quando viene da me un regista che si chiama Dario Argento non posso fare lo schizzinoso, dunque ho trovato una soluzione per venire incontro alle sue esigenze cercando allo stesso tempo di mantenere intatta la mia filosofia compositiva: fare una musica con molte pause all’interno (la tecnica si può notare ad esempio nel brano “Conversation”). L’altro metodo che ho usato è stato variare l’orchestrazione nelle scene simili per argomento, come le molte scene di tortura che sono presenti in Giallo. In un frangente inserisco addirittura una musica alla John Carpenter…

cover giallo kronos

CS: Giallo non è l’unico thriller a cui hai lavorato; sembra anzi che esso sia il genere finora più conforme alla tua vena compositiva. Uno dei film di genere più recenti che hai musicato è Seguimi di Claudio Sestieri, un thriller molto sbilanciato sul versante erotico. Come hai deciso di sviluppare a livello musicale l’aspetto sensuale della pellicola?
MW: Claudio Sestieri, così come Aurelio Grimaldi, è un regista che non richiede molta musica. Sono registi che conoscono l’importanza del silenzio in un film; abbiamo dunque lavorato per inserire la musica solo in quelle scene che la richiedevano effettivamente. In molte scene non c’è musica: le scene di sesso non sono musicate ad esempio. Però anche nel resto del film emerge una sensualità data dalla presenza della modella giapponese Maya Mirofushi, che interpreta un personaggio molto misterioso; ha una relazione con una donna che si invaghisce dei quadri in cui lei è ritratta, e dunque si invaghisce direttamente di lei… Ho cercato di trasmettere questa sensualità attraverso un’orchestrazione eterogenea in cui figura il flauto shakuhachi ma soprattutto tramite il violoncello solista suonato dalla musicista di fama internazionale Tina Guo, nota per le sue collaborazioni con Hans Zimmer. E’ la prima volta che Tina lavora per un film italiano; ha registrato la sua esecuzione e me l’ha inviata via mail. Lei ha suonato sulla versione che avevamo già inciso, con l’orchestra e anche i suoni campionati: il suono del suo violoncello è molto caldo, avvolgente; lei ha un vibrato molto acceso, esasperato che non molti violoncellisti hanno. Ci piaceva anche l’idea di una violoncellista orientale che suonasse un tema per la co-protagonista femminile del film, anche lei orientale.

CS: Come approccio compositivo, Seguimi sembra all’opposto di Giallo, così ben analizzato nel libro, tanto che pare una versione “understated” del tuo stile thriller. E’ una conseguenza del divario tra i due film o di una tua ulteriore maturazione artistica?
MW: La dimensione diversa di questa colonna sonora rispetto a Giallo è dovuta a una precisa richiesta del regista. Claudio Sestieri ha voluto che sperimentassi con suoni molto particolari, dunque sono passato un po’ all’altra scuola di pensiero, che è quella elettronica, e ho scelto molti suoni new age, quasi di sound design, come va di moda oggi; ma li ho scelti in base all’aderenza al tema del film: hanno una qualità che potremmo definire soprannaturale, esoterica; li ho mescolati ai timbri di strumenti orientali come il flauto shakuhachi giapponese (anche se campionato) e anche all’orchestra tradizionale. Questi tre elementi si alternano o si ritrovano insieme a seconda dei casi. Avendola registrata in 5.1, la colonna sonora dovrebbe restituire, in una sala ben attrezzata, una dimensione acustica avvolgente: si dovrebbero ascoltare suoni che si muovono, non statici, soprattutto in una scena per me importante come quella dello “stagno della morte”.

CS: Spicca, rispetto a Giallo, l’uso dei silenzi, che vanno a intaccare il discorso musicale anche a livello tematico. Si può dire che il tema di Haru, la co-protagonista interpretata da Maya Mirofushi, si fondi essenzialmente sull’alternanza suono-silenzio…
MW: E’ vero. La sceneggiatrice del film, Patrizia Pistagnesi, è rimasta tanto colpita dal tema da chiedere al regista che nel film ci fosse una forte presenza, quasi ossessiva, della melodia. Ma a me e al regista è sembrato che fosse eccessivo utilizzarla in continuazione, così l’abbiamo inserita solo quanto Haru era effettivamente presente: ad ogni sua apparizione si ascolta questo tema per flauto e archi che in effetti si basa su una successione di interventi e pause. Credo abbia funzionato nell’intento di creare mistero e inquietudine, specialmente nella scena della galleria d’arte a Matera.

CS: Sempre nell’analisi delle partiture all’interno del libro, si evidenzia l’importanza dell’utilizzo di intervalli dissonanti (seconda minore, quarta aumentata) come deragliamento dall’armonia tradizionale. Quanto, secondo te, ha ancora da dire la tonalità, in particolare nella musica da film e ancora più in particolare nella musica per film di genere?
MW: Me lo sono sempre chiesto. In questo momento per me la musica è un po’ in crisi; negli anni ’60 c’è stata una fase di sperimentazione a tutti i costi che ha portato a esperimenti secondo me un po’ fini a se stessi, come quelli di John Cage che spinge un pianoforte contro il muro per sentire la risonanza della cassa acustica… Per carità, sonorità nuove sono molto interessanti da trovare, ma ritenere quegli esperimenti musiche a sé stanti eseguibili in sala da concerto mi sembra eccessivo. Un altro conto è una musica come quella di Pierre Boulez, che trovo molto interessante… Anche la sua musica non è assolutamente tonale ma ne apprezzo la compattezza. Non sempre la musica contemporanea atonale possiede questa qualità, che secondo me giustifica l’esecuzione in sala da concerto. E’ una mia visione personale: ho una difficoltà ad accettare la musica contemporanea se non in piccole dosi. Detto questo, la sperimentazione elettronica a mio parere è molto interessante soprattutto se utilizzata all’interno di un film, mentre ascoltata in concerto trovo che sia meno incisiva. Voglio specificare anche che apprezzo l’elettronica non in funzione di imitazione orchestrale ma di creazione di nuovi suoni, suoni che quindi siano complementari all’orchestrazione. Georges Delerue mi ha detto che non sopportava l’elettronica che imita l’orchestra: per lui non aveva senso perché aveva la possibilità di lavorare con un’orchestra vera; i suoni elettronici avevano per lui motivo di esistere nel momento in cui potevano diventare un’estensione dell’orchestra, ad esempio attraverso il raggiungimento di altezze sonore impossibili per gli strumenti tradizionali. John Williams in The Fury utilizzò uno strano suono elettronico che imitava principalmente il timbro del theremin, molto acuto… C’è da dire però che i suoni campionati sono anche l’unico strumento che molti compositori hanno a disposizione per avere un’idea, in assenza dell’orchestra vera, di come potrebbe suonare la loro musica.
Riguardo alla tonalità, voglio parlare di un compositore, ingiustamente paragonato da molti alla musica leggera, che è Philip Glass; la critica che gli viene rivolta è che la sua musica è troppo elementare e ripetitiva. Le sue composizioni sono rigorosamente tonali ma non per questo sono banali: trovo anzi che le sue musiche al cinema siano molto efficaci, in particolar modo quelle per Notes on a Scandal, che tra l’altro sono meno ripetitive del suo solito. Glass usa l’armonia tradizionale in maniera moderna, ed è un po’ quello che cerco di fare io nella mia musica per i thriller. Lui utilizza triadi minori ma lo fa attraverso progressioni insolite (come salti di terza minore), a tonalità distanti, che non si trovano nella musica classica. L’unica salvezza che abbiamo credo sia quella di utilizzare l’armonia tradizionale in senso moderno. Morricone una volta ha detto che l’unico modo che aveva di scrivere musica tonale era scrivere per il cinema; la sua musica da concerto era infatti radicalmente sperimentale come ci si aspettava che fosse a quei tempi.
Credo che in definitiva la tonalità abbia ancora molto da dire, e non solo nella musica da film o nei generi che approfondisco nel libro. Personalmente non me la sento di abbandonare l’armonia tradizionale per dedicarmi solo alla musica atonale, seriale, e questo anche nelle musiche da concerto che scrivo, come il mio “Concerto per pianoforte” in tre movimenti, dove ho cercato di fare un discorso tonale ma ambiguo, un po’ nello stile di John Williams soprattutto nel primo movimento. La struttura di questo mio concerto cerca di abbattere le barriere di genere: il secondo movimento presenta una fuga atonale e il terzo è in stile minimalista alla Philip Glass. Un altro mio pezzo da concerto, “Adagio per le vittime di Aushwitz”, è invece strettamente tonale, come “Adagio per archi” di Samuel Barber.

CS: Soprattutto nelle tue colonne sonore thriller spicca l’utilizzo di lunghi accordi degli archi in tonalità minore, come nella musica di uno dei maggiori cantori del tragico al cinema: Howard Shore. Ti senti vicino a questo autore?
MW: Sì, certo. Trovo interessanti soprattutto le sue partiture per i film di David Cronenberg; ma anche quella per Il silenzio degli innocenti… Qualcuno mi fece notare addirittura che uno dei temi che io scrissi per Native somigliava a un tema di Shore per Il signore degli anelli; c’erano effettivamente delle somiglianze ma sono state casuali, proprio perché entrambi abbiamo voluto enfatizzare il lato dark della vicenda ed è venuto fuori un intervallo simile nella scrittura.
Uso molto gli accordi minori perché amo i temi nostalgici e drammatici. Qualcuno potrebbe confondere questo con il romanticismo ma non è la stessa cosa: si tratta di nostalgia e tristezza, il rimpianto di un tempo perduto. Romantico è un’altra cosa: può essere anche sereno; un tema romantico può essere anche in maggiore. Di Morricone ad esempio preferisco le colonne sonore meno romantiche – tra l’altro meno conosciute al grande pubblico –, come Il prato, Addio fratello crudele, I giorni del cielo, L’orca assassina, L’avventuriero, L’esorcista II – L’eretico, Sacco e Vanzetti

CS: Il “pericolo” del romanticismo nelle sue score viene scongiurato anche da un altro espediente, ovvero la forte ricorrenza a successioni di accordi minori, che non utilizza solo nel thriller – penso a Amore e libertà Masaniello (leggi recensione) – e che è molto raro nei compositori italiani per il cinema di oggi. E’ una tendenza ispirata in te dalla tradizione del fantastico cinemusicale, da Herrmann a Goldsmith fino a Elfman?
MW: Prima di fare il compositore volevo fare il regista, più o meno a partire dai 15/16 anni. Realizzai tre cortometraggi come regista: Il giardino proibito, I robot assassini e La trappola. Erano tutti film thriller o di fantascienza, quindi il cinema di genere lo conoscevo già molto bene e ne conoscevo benissimo anche le musiche. Per I robot assassini presi dei brani di John Williams da Star Wars; per una scena di ballo pescai dalle musiche di Romolo Grano per uno sceneggiato televisivo su Madame Bovary. Anche i film in costume mi piacciono molto, soprattutto quelli ambientati nel ‘500 e nel ‘600; per questo la mia musica risente della fascinazione per ciò che è arcaico, oltre che naturalmente dell’amore per il fantastico e il thriller. Mi sono sempre piaciute colonne sonore come Di pari passo con l'amore e la morte o La signora della porta accanto di Georges Delerue, proprio perché hanno un sapore arcaico, triste e nostalgico anziché romantico.

CS: Ascoltando la tua partitura per Amore e liberà Masaniello si ha la stessa sensazione: una musica per nulla romantica…
MW: In realtà in parte lo è. Il regista mi chiese una musica romantica perché vedeva Masaniello come un eroe romantico; quindi purtroppo non ho potuto usare molto gli strumenti dell’epoca: ho usato addirittura il pianoforte che non c’entra niente! Nella musica diegetica ho però potuto utilizzare la musica di un compositore napoletano del ‘600: Andrea Falconieri.
Ho fatto un altro film in costume, Il Conte di Melissa, in cui ho potuto rispettare il periodo storico anche nella musica di commento: ho utilizzato il flauto dolce, il clavicembalo…

CS: Il tuo libro, oltre ad essere un prezioso manuale di composizione non solo per il cinema di genere, assume anche la forma di un vero e proprio atto d’amore verso il cinema delle emozioni forti. Sembra che per te il cinema venga prima di tutto, prima ancora della musica.
MW: Beh, noi che facciamo questo mestiere siamo compositori al servizio delle immagini. Ci sono due metodi diametralmente opposti per la creazione di una colonna sonora, di cui si possono portare come esempi i modus operandi di due compositori. Gabriel Yared, compositore libanese che ha scritto le musiche de Il paziente inglese, non guarda neanche il film perché considera il lavoro del compositore di musica da film come quello del compositore d’opera; il libretto nel suo caso è la sceneggiatura, e sarà poi compito del montatore sincronizzare la musica con le immagini. L’altro estremo è esemplificato dal metodo di lavoro del compositore francese Philippe Sarde, che come me voleva fare il regista ancor prima di fare il musicista: lui addirittura, dopo la visione del film con il regista, ancor prima di parlare di musica, dà consigli al regista su alcune scene da tagliare o da modificare; entra cioè direttamente nella fase realizzativa del film. Interessante e molto estremo… Però non tutti i registi accettano questo modo di lavorare.

CS: Nel servire il cinema, della musica non si sacrifica nulla: sembra evincersi questo dalle analisi inserite nel libro. Sei d’accordo?
MW: Il problema è il seguente: se il volume della musica nel film è troppo basso e questa viene sovrastata dagli effetti sonori – mentre tu magari avevi fatto una musica importante che deve essere ascoltata per funzionare – l’effetto viene naturalmente perso. E’ un argomento su cui voglio lottare soprattutto con gli americani – dovrò collaborare a progetti statunitensi nel prossimo anno, tra cui sicuramente un western –, perché tra loro ci sono veramente pochi registi lungimiranti in questo senso: mi viene in mente Oliver Stone, che nelle scene al ralenti dei suoi film di guerra, Platoon e Salvador, ha lasciato la musica da sola togliendo gli effetti sonori. Cercherò di far capire loro che è assurdo abbassare la musica di volume fino a renderla inudibile, specialmente quando è sinfonica; a quel punto tanto vale toglierla…
Purtroppo, dal punto di vista della fase di creazione di una colonna sonora, non tutte le scene danno modo di nobilitare il discorso musicale: a volte devi mettere un pedale, una nota tenuta per quasi tutto il brano, ed è naturale che questo espediente in sede di concerto può lasciare perplessi.

CS: Potrebbe accadere facilmente di imbattersi in un brano di musica contemporanea, musica destinata alla sala da concerto, costituito da un’unica nota tenuta…
MW: Se la stessa musica – ad esempio un brano che consiste in un unico, lungo pedale – viene scritta per la sala da concerto e per un film, quella per il film viene automaticamente giudicata inferiore. Purtroppo c’è ancora questo pregiudizio.

Seguimi di Claudio Sestieri con Angelique Cavallari, per cui Marco Werba ha scritto le musiche, è uscito il 22 novembre, mentre di prossima distribuzione sono altri film per cui ha composto le score: il film d'autore albanese Inane (L'Estate senza ritorno) di Besnik Bisha e il thriller italiano Pop Posta di Marco Pollini. Il 16 Dicembre, presso il teatro "Le Sedie", a Roma, il Maestro Werba terrà inoltre un concerto per pianoforte e voce (con la cantante Valentina D'Antoni), dedicato al cinema erotico d'autore.



Ringraziamo Marco Werba per il generoso tempo concesso.

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