Ennio
Ennio Morricone
Ennio (2023)
Gianni Ventola Danese
Fisarmonica diatonica
Academy Records
14 brani – durata: 40’ 35”
C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d’antico
(GIOVANNI PASCOLI, L’aquilone)
“[…] la musica esiste, fisicamente, soltanto nell’esecuzione: non la carta stampata, ma il suono ne è il luogo fisico, e dalla carta stampata al suono non si passa generalmente senza mediazione dell’interprete, dell’esecutore”. Con tali parole Massimo Mila sintetizzava negli anni Quaranta del precedente secolo la “particolare condizione sociale di quest’arte che, unica insieme al teatro, richiede l’intermediario di uno o più interpreti, fra l’opera d’arte e chi ne vuol godere” (1). Delle tante singolarità della musica, asemantica secondo i teorici della musica «assoluta» come Eduard Hanslick o, per converso, espressione diretta ed intensa del sentire, quando non sentimento allo stato puro, come in Leopardi (“[la musica] non imita e non esprime che lo stesso sentimento in persona, ch’ella trae da se stessa e non dalla natura”), stupisce ogni volta constatare che essa non è fruibile nell’immediato (come avviene con un libro, un dipinto, subito disponibili alla nostra percezione). Direttori e professori d’orchestra imprimeranno poi il segno della propria personalità, e la musica ascoltata sarà sì quella del suo autore, però filtrata e «trasformata». L’ottimo, la figura del compositore/direttore, non è quasi mai conseguibile.
Ennio Morricone è stato, finché in vita, l’unico legittimo interprete della propria musica, da lui diretta sia in sala di registrazione ed incisione (se si esclude il decennio 1965-75, quando le sue partiture erano sovente dirette da Bruno Nicolai, rare sono le eccezioni: Pierluigi Urbini agli esordi, poi Gianfranco Plenizio, Nicola Samale, Franco Tamponi) sia in sede concertistica. Adesso, le sue note sono nelle mani degli altri, affidate alla sensibilità e perizia di chi le prenderà in carico tanto in veste direttoriale quanto di esecutore solista. Interpretare poi non è solo suonare o dirigere; talvolta è trascrivere lo spartito in funzione di nuovi organici: sfida affascinante e rischiosa, può aprire nuovi orizzonti di ascolto e rivitalizzare come impoverire ed operare illegittimi arbitri.
Nel caso specifico, e tralasciando sia le riorchestrazioni opera del compositore medesimo (un capitolo che ci porterebbe troppo lontano), sia le cover di rock e popstar, che lasciano il tempo che trovano (per loro, altro non v’è da aggiungere), e includendo in una sezione aurea le «interpretazioni» di Milva, Mireille Mathieu, Amii Stewart, Dulce Pontes (ché lì Morricone poneva la sua musica, di nuovi ornamenti rivestita, al servizio della non comune vocalità di quelle primedonne); non sono mancate negli anni le riprese in veste nuova, dai Calibro 35 al violoncellista Yo-Yo Ma, da Simone Pedroni a Roberto Prosseda, da Gilda Buttà a Luca Pincini con esiti sempre persuasivi nella loro alternatività.
Esce ora una nuova crestomazia di pagine morriconiane trascritte ed eseguite per fisarmonica diatonica da Gianni Ventola Danese, apprezzato fisarmonicista, esperto di musica corale classica, fondatore e presidente dell’Accademia del Mantice, docente in vari corsi di organetto in Italia e fuori, interprete del repertorio popolare internazionale ma anche di Bach trascritto per organetto, autore di vari progetti musicali a largo raggio e dei quali Ennio è il più recente approdo. Nelle note introduttive si evidenzia come Morricone abbia scritto di rado per la fisarmonica (ci sovvengono un bellissimo “Carnevale” da Per le antiche scale, il «tema padano» da La tragedia di un uomo ridicolo, alcuni momenti di La domenica specialmente, Lucia, Gino Bartali l’intramontabile), ma come il suono d’ancia sia ben presente nelle sue composizioni, ricche di strumenti aerofoni, dall’armonica a bocca alla tromba, dal clarinetto al fagotto. E ancora si ricorda che già Mario Stefano Pietrodarchi si era reso interprete del Maestro romano con la fisarmonica cromatica e il bandoneon. Ventola Danese pesca tra alcune consacrate arie morriconiane, due momenti da C’era una volta in America, tre da Nuovo Cinema Paradiso, La califfa, Questa specie d’amore, Mission, Il clan dei siciliani; con orecchio però ad altre pagine meno vulgate: Allosanfan, La cosa buffa, Revolver, La leggenda del pianista sull’oceano. Scelte ragionevoli, giuste. Le composizioni storicizzate e le altre inerenti ad un sommerso senza fondo. La scommessa era azzardata. Vuoi perché quella musica presenta peculiarità timbriche e di articolazione melodica, e delicati equilibri tra pause, silenzi e riprese, tali da renderla refrattaria a rielaborazioni e adattamenti: chi volesse cimentarsi, si troverebbe nelle condizioni di una ruspa dentro una villa palladiana. Vuoi perché (come ancora ricordato nelle note), la fisarmonica diatonica (o organetto, 21 tasti e 8 bassi) è strumento limitato nei mezzi armonici e tonali. Eppure, la temeraria scommessa si è rivelata vincente e remunerativa. Audaces fortuna iuvat? Sì, purché al coraggio si affianchino la competenza ed anche la rispettosa umiltà (che non sarà mai passività) nei confronti del modello. Il processo trasformativo è riuscito perché ci restituisce intatta quella musica; si varia, si interpreta, ma senza forzature o stravaganze: “[…] la cultura e la storia sono le armi che consentono al buon interprete di fare un retto uso della sua innegabile libertà. La libertà dell’interprete deve essere costantemente guidata dalla severa disciplina filologica, dalla preparazione storica ed estetica, dallo studio” (2). Qui, Morricone rimane lui; se mai, accresciuto e dispiegato nell’implicito dei segni grafici vergati sul pentagramma attraverso piccole variazioni tematiche e calibrati inserimenti ex novo opera dell’interprete, che integrano il percorso melodico di base, lo indirizzano verso altre possibili strade in un processo autorigenerativo. Il genio morriconiano ne esce rinnovato, ed immerso in un’aura stranita, nel tempo senza tempo della Musica: un tempo che suona remoto, antico, più antico dell’uomo, grazie all’utilizzo della sordina e al timbro particolare dello strumento che qui procede ben oltre il popolaresco e il folk, anche là dove questi elementi traspaiono con maggiore evidenza già nell’originale, come in “Rabbia e tarantella” da Allosanfan, prima delle due collaborazioni con i Taviani. La marcia rivoluzionaria scritta per i due registi su di un ritmo di tarantella è tra le pagine più forti e scandite dell’intero repertorio del Maestro, calata nel profondo dello spirito prerisorgimentale (siamo nel 1816, in pieno clima restaurativo, si parla di Carboneria, di Maestri Sublimi, si tenta uno sbarco antiborbonico in Meridione), carica di energia positiva e “rabbiosa”, martellata come solo lui sapeva fare. L’interprete sceglie una seconda versione, riscritta dall’autore appositamente per il tarantiniano Bastardi senza gloria, utilizzando riproduzioni virtual orchestra (procedimento presente anche altrove: dei 13 brani, uno solo è in versione solista) sulle quali la sanguigna fisicità della fisarmonica esalta il carattere fiero ed energico del brano, e producendosi in una spettacolare variazione conclusiva che ancor più ne sottoscrive lo spirito «popolaresco»: una tarantella che recupera e varia la melodia di partenza e inscena una «festa della rivoluzione» piena di slancio utopico.
Il principio tema con variazioni/rielaborazioni viene applicato spesso ed anzi costituisce il fondamento di questo insolito progetto musicale. Un altro esempio è Il clan dei siciliani, un lavoro al quale Morricone teneva molto perché scritto “sul nome di Bach”, e che inseriva nei concerti all’interno della sezione “Fogli sparsi”. L’arpeggio d’esordio - struttura portante delle successive stratificazioni tematiche - è risolto in una timbrica tra clarinetto e fisarmonica ed acquista un che di nervoso ed incalzante rispetto alla relativa fluidità del pianoforte scordato dell’originale, e si percepisce una spruzzata a la francese. Il secondo tema è un deonimo mascherato (Si bemolle, La, Do, Si naturale=BACH, come più volte richiamato dal Maestro). Il “tema italiano” che segue è affidato agli archi e poi all’organetto. Gianni Ventola Danese aggiunge un quarto spunto in chiave “tango nuevo” che si accoda senza forzature al pregresso morriconiano richiamandolo per rapidi accenni in un moto malinconico molto «tanguero» che sarebbe piaciuto a Borges. Opportunamente nelle note si ricorda che “Libertango” di Astor Piazzolla, posteriore di quattro anni ed espressione del “tango nuevo”, nasce dalla medesima progressione cromatica dell’arpeggio spezzato iniziale. Insomma, la musica di Morricone come fucina di tanto altro che venne dopo, e che verrà.
“Un amico” da Revolver di Sergio Sollima (il sodalizio con Sollima è abbastanza trascurato; eppure è di quelli più cospicui, cinque titoli tra il 1966 e il 1973, e cinque capolavori), tema elegante e geometricamente perfetto, viene immerso in sonorità bandoneon e variato nel finale con cesellature che ne sono una prosecuzione ideale e che l’autore avrebbe approvato.
“Playing Love” da La leggenda del pianista sull’oceano è composizione di trasognata gentilezza e pregnante grazia, “la musica è un miracolo che avviene” aveva detto il Maestro a Donatella Caramia nel 2012 (3). Affidata al sax virtuoso di Gianni Oddi, alla tromba smaltata di Cicci Santucci, al raffinato pianismo della musa Gilda Buttà nella versione film, rende adesso del pari nel trattamento a quattro mani opera di Gianni Ventola Danese e Mauro Di Domenico (chitarra).
I suoni echeggiano nelle sale di una corte rinascimentale tra studiati rituali galanti e delicate epifanie d’amore. Amore anche in “Love Affair” dal film omonimo. Al primo ascolto, una tipica melodia del Nostro (tema breve e iconico), bella ma non dissimile da tante altre. Poi riascolti, e capisci. Tono dimesso, crepuscolare; armonie che si alimentano dal passato senza necessariamente farne un calco. Lontanissime da Metti, una sera a cena e derivati non meno che dai tanti ritratti di donna effigiati nel tempo. Qui tira aria di finale di partita, le note si ripiegano su se stesse, tentano un volo senza ali, ricadono. Splendida nella versione originale per flauto, corno e orchestra e piano in retroguardia e la voce della Divina sempre dolcemente carezzevole, esaltata nelle esecuzioni al pianoforte di Gilda Buttà e Luca Pedroni che le donano un incanto romantico-decadente, dichiara ulteriori modi timbrici ed espressivi nel trattamento per fisarmonica che ne ribadisce l’understatement emotivo. Amore ancora nel “Tema d’amore” da Nuovo Cinema Paradiso, pagina d’incontrastata fortuna e prova già matura di un figlio d’arte, qui esposta in due variazioni, una scritta dall’interprete, l’altra presa a prestito dal bandoneista Marco Stefano Pietrodarchi, che si sviluppano in arabeschi dilettosi che ne fanno un “versione alternativa”. Dal film di Giuseppe Tornatore anche il “Main Theme” assoggettato a minuscole varianti di grande fascino sviluppate con la tecnica del perpetuum mobile, e il brano “Infanzia e maturità”, rapidi slittamenti melodici che dicono le risorse nascoste in una sequenza di suoni.
“La califfa” e “Questa specie d’amore” derivano dagli omonimi film di Alberto Bevilacqua. Il primo si segnala per il timbro più denso rispetto all’oboe dell’originale, nel secondo duettano fisarmonica e fagotto: resa impeccabile in entrambi i casi. “Come Romeo e Giulietta” viene da La cosa buffa, i fraseggi dell’organetto immergono in una rarefatta meraviglia i due temi in contrappunto.
Lo scegliere fior da fiore equivale a escludere di brutto e a includere obbligatoriamente. E così non potevano rimanere tagliati fuori i due capisaldi Mission e C’era una volta in America. Dal film di Joffé la scelta cade su “Gabriel’s Oboe”, brano di grande profondità religiosa costruito su “quella sesta cui Morricone affida, per tradizione, il compito dell’esplicitazione lirica e della positività” (4). L’interprete ricorre alla sordina e ne ricava un suono profondo e anticato, con qualche fioritura in meno rispetto all’originale. Il testamento cinematografico di Sergio Leone offrì al suo musicista un’opportunità unica, la score di C’era una volta in America rimane un esito dei più elevati, sintesi di dissimulata abilità costruttiva e di sicura presa emozionale. Anche qui Gianni Ventola Danese impiega la sordina. Le ampie volute nostalgiche di “Once Upon a Time in America” si colorano di riflessi cangianti nel timbro della fisarmonica. Il “Deborah’s Theme” è eseguito (ma il termine è riduttivo) in forma solistica, lo strumento funge e da basso continuo e da melodia sviluppata sul pedale. Gli abbellimenti raffinati e le minuscole variazioni rinforzano la suggestione del brano che acquisisce un suono più misterioso ed evocativo.
Il progetto di Gianni Ventola Danese apre ad una nuova avventura dell’ascolto, merito di una interpretazione che è creativa sintonia, e di una musica non esauribile. La musica del Maestro romano non ha ancora detto tutto, permangono zone d’ombra da illuminare. Perché, ci rammenta ancora Mila, la pagina scritta è “mero segno convenzionale e semplice possibilità o promessa di musica” (5).
(1) Massimo Mila (1910-1988), musicologo e critico musicale torinese, si occupò del problema dell’interpretazione in due scritti, La libertà dell’interpretazione musicale (1946) e La realtà della musica nell’esecuzione (1949), confluiti in ID., L’esperienza musicale e l’estetica, Torino, Einaudi, 1956, pp. 159-181: 173.
(2) Ivi, p. 180.
(3) DONATELLA CARAMIA, La Musica e oltre. Colloqui con Ennio Morricone, Brescia, Morcelliana, 2012-2022 (seconda ediz.), p. 165.
(4) SERGIO MICELI, Morricone, la musica, il cinema, nuova edizione a cura di Maurizio Corbella, Milano, Ricordi-LIM, 2021, p. 326.
(5) MASSIMO MILA, op. cit., p. 179.
NOTA: Le espressioni in corsivo nel testo derivano da https://www.strumentiemusica.com/notizie/ennio-gianni-ventola-danese (ultimo accesso: marzo 2023)