‘Blowing your own trumpet’ - Reportage dal 67esimo Festival di Cannes
Reportage dal 67esimo Festival di Cannes
‘Blowing your own trumpet’
Non c’è che dire, Cannes sa, anno dopo anno, come rendere il suo festival unico e speciale. Già, il 67esimo Festival di Cannes si è aperto con un film di grande richiamo: Grace di Monaco, diretto da Olivier Dahan e interpretato da Nicole Kidman, mentre la versione restaurata di Per un pugno di dollari (1964) di Sergio Leone, invece, ha chiuso in bellezza la kermesse. Prima di procedere con il consueto approfondimento sui film presentati, diamo uno sguardo al programma completo di questa ricca edizione.
CONCORSO:
SILS MARIA di OLIVIER ASSAYAS
SAINT LAURENT di BERTRAND BONELLO
KIS UYKUSU (SOMMEIL D'HIVER) di NURI BILGE CEYLAN
MAPS TO THE STARS di DAVID CRONENBERG
DEUX JOURS, UNE NUIT di JEAN-PIERRE e LUC DARDENNE
MOMMY di XAVIER DOLAN
CAPTIVES di ATOM EGOYAN
ADIEU AU LANGAGE di JEAN-LUC GODARD
THE SEARCH di MICHEL HAZANAVICIUS
THE HOMESMAN di TOMMY LEE JONES
FUTATSUME NO MADO (DEUX FENÊTRES) di NAOMI KAWASE
MR. TURNER di MIKE LEIGH
JIMMY’S HALL di KEN LOACH
FOXCATCHER di BENNETT MILLER
LE MERAVIGLIE di ALICE ROHRWACHER
TIMBUKTU di ABDERRAHMANE SISSAKO
RELATOS SALVAJES (WILD TALES) di DAMIAN SZIFRON
LEVIATHAN di ANDREY ZVYAGINTSEV
FUORI CONCORSO:
GUI LAI di ZHANG YIMOU
HOW TO TRAIN YOUR DRAGON 2 di DEAN DEBLOIS
Celebrazione dei 70 anni del quotidiano Le Monde : LES GENS DU MONDE di YVES JEULAND
GRACE OF MONACO di OLIVIER DAHAN (FILM D'APERTURA)
L’HOMME QU’ON AIMAIT TROP di ANDRÉ TÉCHINÉ
SPECIAL SCREENINGS:
EAU ARGENTÉE di MOHAMMED OSSAMA
MAIDAN di SERGEI LOZNITSA
RED ARMY di POLSKY GABE
CARICATURISTES – FANTASSINS DE LA DÉMOCRATIE di STEPHANIE VALLOATTO
LES PONTS DE SARAJEVO, film corale
OF MEN AND WAR (DES HOMMES ET DE LA GUERRE) di LAURENT BÉCUE-RENARD
THE OWNERS di ADILKHAN YERZHANOV
GÉRONIMO di TONY GATLIF
EL ARDOR di PABLO FENDRIK
MIDNIGHT SCREENINGS:
THE ROVER di DAVID MICHOD
THE SALVATION di KRISTIAN LEVRING
PYO JEOK di CHANG
UN CERTAIN REGARD:
JAUJA di LISANDRO ALONSO
LA CHAMBRE BLEUE di MATHIEU AMALRIC
INCOMPRESA di ASIA ARGENTO
TITLI di KANU BEHL
ELEANOR RIGBY di NED BENSON
PARTY GIRL di MARIE AMACHOUKELI, CLAIRE BURGER e SAMUEL THEIS
BIRD PEOPLE di PASCALE FERRAN
LOST RIVER di RYAN GOSLING
AMOUR FOU di JESSICA HAUSNER
CHARLIE’S COUNTRY di ROLF DE HEER
SNOW IN PARADISE di ANDREW HULME
DOHEE-YA di JULY JUNG
XENIA di PANOS KOUTRAS
RUN di PHILIPPE LACÔTE
TURIST di RUBEN ÖSTLUND
HERMOSA JUVENTUD di JAIME ROSALES
THE SALT OF THE EARTH di WIM WENDERS e JULIANO RIBEIRO SALGADO
FANTASIA di WANG CHAO
HARCHECK MI HEADRO di KEREN YEDAYA
FEHÉR ISTEN (WHITE GOD) DI KORNÉL MUNDRUCZÓ
Cannes 2014 e… i film di punta
Come già accennato, il Festival si è aperto con la proiezione, fuori concorso, di Grace di Monaco (Grace of Monaco) del regista francese Olivier Dahan. Prima ancora di essere proiettato il film ha suscitato vibranti polemiche innescate dalla casa regnate nel Principato, da alcuni dei suoi autorevoli membri - i figli di Grace Kelly: Alberto, Stephanie e Carolina in prima fila - hanno rimproverato a regista e produttore di aver costruito un film segnato da importanti inesattezze storiche e da una serie di scene puramente fittizie. Visto il film viene la forte tentazione di dare ragione ai Principi Grimaldi, perché di null’altro si tratta se non di un supercolosso a dimensione europea interamente giostrato su alcune star hollywoodiane (Nicole Kidman, Tim Roth, Frank Langella) e su una sfilata di abiti e gioielli degna di una mostra sull’epoca. Siamo all’inizio degli anni sessanta e Grace Kelly, attrice americana musa di Alfred Hitchcock, ha sposato sei anni prima il Principe Ranieri di Monaco, diventando la sovrana del minuscolo regno incastonato nella Costa Azzurra francese. Sono tempi difficili, la Guerra d’Algeria si sta chiudendo con enormi perdite di vite da parte della Francia dove il Generale de Gaulle (1890 – 1970), salito al potere nel 1959 con la nascita della quinta repubblica di cui è eletto primo presidente, sta tentando di rivitalizzare le finanze statali salassate dal lungo conflitto nordafricano. Una delle sue decisioni mira ad arginare la fuga delle imprese nazionali verso il principato monegasco che consente alle aziende di non pagare tasse. Il braccio di ferro che ne segue con le autorità del piccolo regno vede una continua escalation di minacce sino al blocco, da parte dei francesi, dei confini del principato. Poca cosa, nel quadro generale dei fatti di quegli anni, ma fonte di grandi preoccupazioni per il Principe e la Principessa. Quest’ultima, inoltre, deve prendere una difficile decisione: se accettare o respingere l’offerta che arriva dalla Mecca del cinema di interpretare Marnie (1964) del suo mentore Alfred Hitchcock. Alla fine sceglierà di anteporre i doveri politici alla passione per la settima arte, arrivando, ci dice Oliver Dahan, a svelare oscure congiure di corte e disinnescare i propositi annessionisti del generale. Siamo in anni in cui accadono vicende importanti e segneranno il futuro per molto tempo (si pensi al conflitto algerino e all’inizio della fine del colonialismo francese), tuttavia di tutto questo non c’è traccia nel film che si limita ad esporre palazzi da sogno, abiti d’alta moda, gioielli milionari. In poche parole un film hollywoodiano, anche se di produzione prevalentemente europea, nel senso peggiore del termine, vacuo ed esteriormente smagliante.
Timbuktu, del mauritano Abderrahmane Sissako, ha aperto la sfilata dei film in concorso ed è stata davvero una partenza con il botto. Il film si riallaccia ad un fatto di cronaca. Il 29 giugno 2012 ad Aguelhak, un paesino del nord del Mali, una coppia convivente, ma non maritata, fu messa a morte per lapidazione da un tribunale islamico organizzato dagli occupanti appartenenti a una della tante forze islamiste che hanno invaso i paesi africani dopo la caduta del regime di Mu'ammar Gheddafi (1942 – 2011). Il regista prende spunto da questa tragedia per raccontare la storia di un piccolo villaggio in cui un gruppo armato, i cui dirigenti parlano arabo e non la lingua locale, si impossessa del potere e detta leggi assurde per coloro che vivono lì. Non si può più giocare a calcio anche se gli occupanti discutono tranquillamente della preminenza di Messi su Zidane, è proibito l’ascolto della musica, è vietato fumare anche se uno dei capi sia accende una sigaretta non appena riesce a nascondersi agli occhi degli altri. Sesso fuori dal matrimonio e alcool sono banditi e la loro pratica causa crudeli punizioni, l’omicidio può essere compensato con il perdono dei parenti dell’ucciso o con il versamento di un prezzo. Tuttavia giovani fanciulle possono subire matrimoni forzati con militanti giudicati buoni mussulmani. Per quanto riguarda il calcio, in particolare il regista ci offre una sequenza davvero mirabile, quella in cui i giocatori della squadra locale mimano un partita senza pallone gabellandola, agli occhi degli occupanti, come una seduta ginnica. In poche parole la legge della Shariah interpretata con fanatismo e non poco opportunismo. E’ un panorama allucinante in cui s’inscrive il martirio di un allevatore di bestiame e di sua moglie, lui colpevole di aver ucciso durante una rissa un pescatore che aveva ammazzato una delle sue mucche che aveva travolto le reti stese lungo il fiume. E’ un film dai tratti semplici, ma ricco di suggestioni e indicazioni politiche che mette a confronto due facce dell’Islam, quella tollerante e millenaria degli abitanti del villaggio e il volto fanatico degli estremisti.
Mr. Turner di Mike Leigh. Leigh è uno dei più apprezzati e originali registi inglesi, autore di quindici titoli molti dei quali dedicati ai ceti popolari e a storie di ordinaria vita quotidiana, viste spesso con un occhio socialmente sensibile. Con questi precedenti non stupisce che sia stato attirato dai venticinque anni finali nella vita di Joseph Mallord William Turner (1775 – 1851), uno dei massimi pittori inglesi, molto criticato in vita dall’establishment dell'epoca, compresi influenti membri della famiglia reale, disturbati dal suo stile fortemente innovativo che suscitò l’ammirazione e le lodi di uno dei padri dell’impressionismo, Claude Monet (1840 – 1926), anche se, in seguito, il pittore francese modificò radicalmente il suo primo giudizio positivo. Mr. Turner è un film sostanzialmente televisivo sia nella durata, due ore e mezzo di proiezione buone per un paio di serate TV, sia nell’approccio, tutto centrato sul personaggio e ben poco sull’epoca in cui ha vissuto. Quello che ci è proposto è un quadro magistralmente interpretato (Timothy Spall) di un uomo mal compreso dai suoi contemporanei, animato da una struggente curiosità che lo porta a viaggiare in continuazione, padre e padrone (anche sessualmente) dell’anziana governante e che trova fra le braccia di una matura proprietaria di una piccola pensione se non un approdo sicuro almeno un’oasi di quiete. La confezione è davvero straordinaria e quasi ogni fotogramma rimanda ai quadri del pittore sia nelle versioni paesaggistiche, sia – per quanto riguarda i colori – in quelle di vita quotidiana. Un film professionalmente straordinario, ma meno originale di precedenti di questo autore che qui sembra aver sentito in modo particolare il peso della committenza televisiva.
Ha aperto le danze anche la sezione Un Certain Regard, la più prestigiosa dopo il Concorso. In questo caso l’inizio non è stato rilevante visto che Party Girls del terzetto Marie Amachoukeli, Claire Berger e Samuel Theis si è rivelato, ad essere generosi, il raffinato ritratto di un’attempata entraineuse che, a sessant’anni suonati, riceve una proposta di matrimonio da un ex – minatore. Accetta dopo molte titubanze e dopo aver incontrato i quattro figli che ha avuto da compagni diversi (uno neppure certo) che hanno fatto una loro vita e una è stata persino adottata da un’altra famiglia. Siamo in una zona di confine fra Francia e Germania, un terreno vago segnato da localini di striptease in cui si esibiscono donne spesso sfatte che hanno il compito di far consumare ai clienti bottiglie di pseudo champagne. Angelica è una di queste semi prostitute, termine che lei aborrisce e rigetta con forza, quasi che la questione del nome mutasse la sostanza delle cose. In ogni caso l’attrazione verso la vita apparentemente festaiola del locale ha la meglio sul vincolo matrimoniale assunto come simbolo di tranquillità e perbenismo. Il film finisce con la protagonista che, la sera stessa delle nozze, si rimette in strada per ritornare al night in cui ha speso quasi tutta la sua vita. Il film è segnato da non poca ambiguità (chi fa un certo mestiere non ha alcuna possibilità di cambiare?) e da un taglio pericolosamente in bilico fra il documentario e il melodramma.
Captives del canadese di origini armene Atom Egoyan affronta il tema, drammatico e socialmente rilevante, dei rapimenti di bambine e bambini da usare, attraverso internet, per pratiche pedofile. Tutto inizia con la scomparsa della piccola Cassandra, rimasta sola in auto mentre il padre andava a comperare un torta proprio per lei. Vari anni dopo un cocciuto poliziotto, specializzato in reati di pedofilia, riesce a penetrare nella rete che utilizza la ragazza come richiamo. In breve l’intera organizzazione è debellata anche a costo del rapimento, con rischio di morte, della sovraintendente all’operazione e il ferimento dell’agente che non ha mai rinunciato a cercare la ragazza. Il film intreccia i piani temporali della storia senza precise indicazioni consequenziali e questo rende abbastanza difficile seguirne gli sviluppi, quantomeno nella prima mezz’ora. E’ una costruzione a sbalzi che conferisce un pizzico di creatività ad un film che, per il resto, si presenta come un testo altamente professionale, ma dal taglio decisamente commerciale. Da notare che il regista ci tiene a lodare la costanza e la professionalità della polizia canadese, nonché a presentarci commissariati e arredi di uffici in modo tanto lustro e moderno che li si direbbero locali di un grande albergo. Forse è proprio così, ma rimane il dubbio che il cineasta abbia pagato un pegno non trascurabile alla collaborazione delle forze dell’ordine del suo paese.
Con Relatos Salvajes (Racconti selvaggi) dell’argentino Damián Szifron il festival si è preso una gradita e positiva vacanza umoristica. Sono alcuni racconti in cui emergono le tendenze belluine dell’umanità. S’inizia con un aereo su cui si incontrano, senza saperlo, le persone che hanno avuto a che fare con un certo giovane che li ha riuniti su quel volo con vari pretesti e che ora li ucciderà, suicidandosi e facendo precipitare il velivolo. Si prosegue con un automobilista che ingaggia una vera e propria guerra mortale con un bruto che guida un mezzo sgangherato pieno di attrezzi da lavoro. Nuova storia quella di un giovane di buona famiglia che uccide, con l'auto del padre, una donna incinta lasciandola esanime per terra. Il genitore inizierà quello che si trasformerà in un vero e proprio mercato per far addossare la colpa ad un giardiniere al suo servizio. Si continua con un ingegnere specializzato nella demolizione di manufatti con esplosivi vessato da burocrazia e addetti al traffico che diventa un eroe popolare quando, esasperato, usa le sue conoscenze facendo esplodere un deposito di auto sequestrate perché in divieto di sosta. Si chiude con un sontuoso matrimonio nel corso dei cui festeggiamenti la sposa scopre l’adulterio del marito e ingaggia con lui e l’amante un duello sanguinoso. Non è un caso se fra i produttori del film fa capolino anche Pedro Almodovar, il film ne riprende in pieno la filosofia beffarda con una tendenza particolarmente accentuata verso l’ironia. Si dice che i film ironici, quando riescono ad entrare nelle selezioni dei grandi festival, hanno un possibilità in più visto che pubblico e critici sono più che disposti ad accoglierli a braccia aperte dopo l’alluvione di drammi e tragedia che solitamente li attende. In questo caso non c’è solo questo prevedibile interesse verso una pausa di leggerezza, ma anche una costruzione narrativa originale e piacevole.
La sezione Un Certain Regard ha presentato il bel film che l’attore e regista Mathieu Amalric ha tratto dal romanzo La camera azzurra (La Chambre bleue) che Georges Simenon (1903 – 1989) ha scritto nel 1963. Un testo rapido ed efficace in cui si racconta, con dovizia di punti di vista ambigui, la storia di due amanti accusati, con prove unicamente indiziarie, della morte dei rispettivi coniugi. Finiranno entrambi condannati all’ergastolo, decisione che la donna accetta con serenità convinta che, in questo modo, saranno legati per sempre. Il regista e attore ricrea l’ambiguità della vicenda, semina indizi che portano lo spettatore a dubitare di ogni cosa e a spostare l’accento della colpevolezza ora su un personaggio, ora su un altro. Il taglio della narrazione è classico e la performance degli attori giuoca un ruolo fondamentale nella valutazione positiva del film. Lo stesso spostamento temporale, dagli anni sessanta ai giorni nostri, non compromette la struttura complessiva del racconto che rimane un quadro preciso e sofferto di una passione irrefrenabile, soprattutto da parte della donna. Molto apprezzabile anche l'equilibrio fra le scene erotiche e la normalità giudiziaria del tutto incapace di cogliere la tensione che lega i due amanti e, soprattutto, i loro corpi.
Quest’anno il cinema francese ha dedicato ben due film alla figura dello stilista Yves Saint Laurent (1936 – 2008): quello firmato da Jalil Lespert e uscito anche sui nostri schermi e questo Saint Laurent firmato da Bertrand Bonello, entrato nel concorso del Festival. L’approccio dei due registi è molto diverso, mentre il primo segue, grosso modo, la strada del film biografico di tipo tradizionale, con vari riferimenti al ruolo sociale di questo sarto d’alto livello, il secondo focalizza la psicologia dell’uomo, le sue debolezze ed eccentricità. In entrambi i casi ha un ruolo importante l’omosessualità del personaggio e la sua vita promiscua negli anni di maggiore creatività, tuttavia il primo cineasta focalizza più le relazioni umane e sociali del couturier, mentre il film presentato in concorso al Festival è segnato da un tono sfuggente, quasi da semplice accenno, ad uno dei motivi fondanti il successo e la personalità di YSL: il suo rapporto con Pierre Bergé, una relazione che li legò, professionalmente e sentimentalmente, per tutta la vita. A questo creatore vanno riconosciuti molti meriti, primo fra tutti quello di aver proposto modelle vestite con capi d’abbigliamento – pantaloni, blazer, sahariane, smoking – sino a quel momento considerati solo maschili. E’ stato anche un grande amatore dell’arte, a lui Andy Warhol dedicò uno dei suoi famosi multipli e lui si ispirò per gli abiti più belli presenti nelle sue sfilate - un’intera collezione fu dedicata a Piet Mondrian (1872 – 1944) – ai maggiori pittori dell’era moderna. Di tutto questo nel film di Bertrand Bonello c’è poco o niente e questo è il maggior senso d’insoddisfazione lasciato dal film.
Nuri Bilge Ceylan (Istanbul 1959) è il più importante regista turco e uno degli autori di maggior peso del cinema contemporaneo. Sino ad oggi ha firmato otto titoli, sette dei quali coronati da premi nei maggiori festival internazionali. La sua ultima fatica Winter Sleep (Letargo) è approdata in concorso al Festival preceduta da molte attese. Diciamo subito che non è il suo film migliore e la prima cosa che salta agli occhi è che la sua inusuale lunghezza, tre ore e sedici minuti di proiezione, non appare del tutto giustificata da reali esigenze narrative. La storia, immersa in una Turchia di montagna colta in pieno inverno, è quella di un maturo attore teatrale che, abbandonata la professione, si è ritirato a gestire un suggestivo albergo costruito sfruttando varie grotte. Sono con lui la sorella e la giovane compagna di vita, entrambe insoddisfatte dei suoi comportamenti. La prima ha molto da ridire sul suo filosofeggiare e scrivere saggi di morale, la seconda trova il coraggio di ribellarsi gettandogli in faccia il peso del suo dispotismo e l’oppressione che ha esercitato su di lei gabellandole per razionalità e realismo. Una ribellione che approderà ad esiti decisamente discutibili: quando la donna deciderà di fare di testa sua, finirà con lo scontrarsi con un mondo esterno che segue regole ben diverse dalle sue. E’ il lungo quadro di un travaglio in un interno in cui si sente il ricordo del cinema di Ingmar Bergman (1918 – 2007), filtrato attraverso una sensibilità moderna, ma lontana mille miglia da quella nordica. Ne risulta un film stupendamente fotografato, ma questa è una caratteristica che accomuna tutto il cinema di questo autore, anche se più di testa che di cuore nel senso che vi circola una freddezza che ne fa un’opera più costruita a tavolino che partecipata con lo spirito.
La sezione Un Certain Regard ha presentato un film proveniente dalla Costa D’Avorio un paese in cui i più recenti conflitti politico – militari hanno causato più di tremila morti. A questa tragedia si era ispirato Philippe Lacôte con il video documentario Chroniques de guerre en Côte d’Ivoire (Cronache di guerra in Costa d’Avorio, 2008) che ritorna ora sul tema con un film narrativo, Run, in cui disegna le vicende di un giovane che passa dal servizio ad una sorta di mostruosa imbonitrice, campionessa dell’ingurgitare tonnellate di cibo, a quello di un miliziano che svolge il lavoro sporco per conto del presidente della repubblica. Quando questo mercenario diventa ministro, e vi riesce anche perché ha ucciso un oppositore del politico, il giovane si traveste da mendicante, passa molti giorni nei pressi della cattedrale della capitale e, quando l’odiato aguzzino si presenta per partecipare ad una cerimonia ufficiale, lo uccide. Il film ha un tratto narrativo abbastanza ordinario e non sempre lineare, ma vi pulsano un generosità e una passione di grande effetto.
Il solo film italiano scelto per il concorso è stato Le meraviglie diretto da Alice Rohrwacher e interpretato, fra gli altri, da sua sorella Alba. In una campagna divisa fra Umbria, Toscana e Lazio vive una famiglia composta da un padre originario dell’Europa settentrionale, sposato con un’italiana da cui ha avuto quattro figlie. Alla piccola comunità partecipa anche un’amica della stessa origine del padre e, da un certo momento in poi, anche un giovane tedesco affidato al gruppo per essere rieducato dopo essersi avviato sulla strada della delinquenza. Il padre ha vaghi precedenti contestativi – vita in una comune? partecipazione a qualche frangia rivoluzionaria? – ed ora, sicuro della prossima fine del mondo, alleva moglie, amica e figlie nel culto della vita semplice. Produce miele, vive in una casa dirupata limitando al minimo i contatti con il mondo esterno. In questo mondo re-rurale s’inserisce una troupe televisiva che sta filmando un concorso fra aziende al fine di far conoscere, sponsor la Regione, i migliori prodotti agricoli della zona. E’ un conflitto fra falsa modernità e vita agreste che trova un punto di frattura nel ragazzino affidato alla famiglia agricola per la rieducazione. Un quasi dramma che mette in luce la fragilità dei sogni di evasione dal mondo e l’impossibilità di vivere fuori del proprio tempo e delle contraddizioni che comporta. Non a caso le ultime immagini partono dal quadro falsamente idilliaco della famigliola, riunita all’aperto su un grande letto, per spostarsi sulla fattoria ormai in rovina: come dire, la fuga dalla realtà produce solo rovine. Il film è girato in modo grezzo, con parti che sembrano amatoriali e affronta temi, troppi, che coinvolgono importanti questioni sia etiche che sociali, tuttavia questa complessa materia appare più accatastata che filtrata con un vaglio ben preciso, per cui ne nasce un senso di caos, più che di presa di posizione organicamente motivata.
Tommy Lee Jones, regista e attore straordinario, ha presentato The Homesman tratto da un romanzo di Glendon Swarthout (1918 - 1992), pubblicato nel 1988, che racconta il lungo viaggio di una strana coppia dal Nebraska allo Iowa. Siamo nel 1854 e una coriacea pioniera, che gestisce da sola un fattoria di frontiera e non riesce a trovare nessuno che la sposi, si fa assegnare l’incarico di portare tre donne affette da turbe psichiche da una cittadina – quattro case in mezzo al nulla – ad una grande città, per gli standard dell’epoca, dello Iowa dove saranno affidate a una missione religiosa che le farà curare. Il viaggio durerà varie settimane e la donna decide di ingaggiare, con la promessa di una ricompensa a fine percorso, un maturo vagabondo, disertore dell’esercito, che casualmente ha salvato da morte per impiccagione. I due conducono a turno un carro per il bestiame, frettolosamente adattato a veicolo su cui trasportare le tre dementi, si aiutano nel superare ogni sorta di difficoltà - dagli indiani a cavalieri solitari che vorrebbero fare delle tre ammalate oggetti puramente sessuali - sino al momento che la confidenza e la stima maturata fra loro inducono la donna a chiedere all’uomo di sposarla. Quando questi rifiuta lei gli si offre, poi si impicca. Ora è lui ad avere il dovere morale di consegnare le donne alla missione religiosa. Lo fa e si mette sulla via per ritornare là dove ha sepolto la compagna di una notte e mettere una lapide sulla sua tomba. Tuttavia il progetto è destinato a non realizzarsi. Questo cineasta si era già fatto apprezzare con la sua opera prima per il cinema, Le tre sepolture (The Three Burials of Melquiades Estrada, 2005), ed ora conferma le sue capacità narrative con un film che solo esteriormente ha l’aspetto del western, ma che, in realtà, disegna il pregevole ritratto di due solitudini, disperse in paesaggi affascinanti quanto terribili, lande coperte di polvere o neve che le rendono inospitali e suggestive. Un film di grande forza, il migliore fra quelli presenti nel cartellone del festival.
Turist / Force Majeure dello svedese Ruben Östluld ha ricevuto un lunghissimo applauso dal pubblico della sezione Un Certain Regard, riconoscimento meritato per un bel film, anche se non bellissimo, in cui si percorrono i quattro giorni di vacanza sulla neve di una coppia svedese benestante che soggiorna in un lussuoso residence sulle alpi francesi. Un incidente quasi banale – una valanga provocata da esplosioni controllate che sfiora la terrazza su cui i quattro stanno mangiando – mette in crisi l’apparente solidità del nucleo familiare. Il marito, infatti, invece di preoccuparsi per moglie e figli, ha pensato solo a mettersi in salvo, abbandonando gli altri. Un gesto automatico che svela l’egoismo dell’uomo e che la moglie non riesce a perdonare. Le cose (forse) si aggiusteranno solo dopo una lunga serie di conflitti che porteranno il maschio a prendere atto della sua fragilità ed egoismo. Si direbbe, se non abbondassero le situazioni ironiche, un film alla Ingmar Bergman, soprattutto una di quelle spietate radiografie familiari che questo regista ha realizzato a fine carriera. La narrazione procede lineare, gli struggenti paesaggi alpini fanno da contraltare a un travaglio psicologico celato sotto un rigido perbenismo. Laddove dominava una felicità predeterminata ora c’è la luce impietosa sulla fragilità umana, in questo il film svolge un ruolo di analisi importante del torvo che si agita sotto il ferreo manto della rispettabilità borghese.
Non sono pochi gli estimatori del cinema del canadese David Cronenberg il cui film più conosciuto è l’horror La mosca (The Fly 1986). Dopo quel titolo questo regista ha dato prova di grande versatilità muovendosi nei generi più diversi: dal thriller (La promessa dell’assassino, 2007) allo storico (A Dangerous Method, 2011), dal fantascientifico (eXistenZ, 1999) alla storia psicanalitica (Crash, 1996). Con Maps to the stars ritorna sui binari del thriller raccontando, con abbondanti intrecci temporali non sempre facilmente afferrabili alla prima visione, la storia di una famigli in cui i genitori scoprono di essere fratello e sorella. La cosa getta nel panico la figlia maggiore che da fuoco alla casa, per punire padre e madre, riuscendo solo ad ustionarsi gravemente. Qualche tempo dopo ritorna a Hollywood dove, nel frattempo, il suo fratellino è diventato una star e suo padre un trainer psicofisico che ha come clienti dive famose. Fra queste una matura attrice, figlia di una star di un tempo, che spera di dare una svolta alla sua decadente carriera interpretando il ruolo che fu della madre in un rifacimento di uno dei titoli di maggiore successo a cui aveva partecipato. Ci sono varie traversie, alcune delle quali costruite in modo da mettere in luce la volgarità e l’arrivismo di questa attrice un tempo famosa ed ora sull’orlo dell’emarginazione. In questo senso è esemplare la sequenza in cui la matura diva dà istruzioni alla giovane segretaria seduta sul wc. Alla fine la giovane incendiaria riuscirà a portare a termine la vendetta inducendo la madre a suicidarsi con il fuoco e causando la morte per infarto del padre. Ora che tutto sembra sistemato fratello e sorella, che si sono sempre amati, si uccidono abbracciati. Il film è girato piattamente e racconta una storia confusa che non offre appigli di sorta se non quelli legati ad un modo di raccontare decisamente banale.
E’ andata meglio con Foxcatcher (Cacciatori di volpi) di Bennet Miller che è partito dalla cronaca per raccontare il drammatico rapporto fra il miliardario John du Pont e il lottatore David Schultz. Il secondo ha vinto la medaglia d’oro della specialità alle olimpiadi di Los Angeles del 1984 e ha allenato il fratello Mark che ha gareggiato nelle olimpiadi di Seoul del 1988. Il ricco rampollo di una della famiglie più in vista degli Stati Uniti – industria chimica e forniture militari – nel 1996 uccise l’atleta con alcuni colpi di pistola. E’ una vicenda oscura su cui hanno avuto un peso determinante sia i complessi rapporti fra il ricco industriale e i due fratelli atleti. Il primo soffriva di un forte complesso d’inferiorità nei confronti della madre che adorava i cavalli di razza e aborriva la lotta, sport adorato dal figlio. Il centro del discorso è sul potere del denaro e sull’illusione che qualsiasi cosa sia in vendita e il suo possesso possa lenire qualsiasi ferita psicologica. Il film svela i retroscena di un mondo, quello sportivo rivolto ai Giochi Olimpici, non molto noto che riserva non poche sorprese. E’ un ottimo esempio di cinema di documentazione civile e psicologica che porta la firma di un regista con alle spalle un interessante film sullo sport (L’arte di vincere - Moneyball, 2002) e, soprattutto, una bella biografia dello scrittore Truman Capote (Truman Capote - A sangue freddo – Capote, 2005).
La sezione Un Certain Regard ha presentato un’opera prima sudcoreana non priva di ambiguità. Dohee - A girl at my door (Una ragazza alla mia porta) racconta la storia di una commissaria di polizia lesbica inviata per punizione in una piccola cittadina della costa. Qui entra in contrasto con un piccolo imprenditore locale, violento e alcolizzato, che impiega immigrati clandestini e non esita a picchiarli a sangue al minimo cenno di ribellione. Quando la poliziotta lo fa arrestare, proprio causa di uno di questi pestaggi, lui si vendica denunciandola per aver ospitato sua figlia per supposti fini sessuali. La ragazza, al contrario, era andata a vivere da lei per sottrarsi alle botte del padre. Ogni cosa si chiarirà e la donna e la bambina potranno incamminarsi verso una pacifica e gioiosa vita assieme. Abbiamo parlato di ambiguità in quanto sembra assai difficile che, dopo ciò che è successo, le due donne possano tranquillamente andare a vivere assieme svincolate da ogni obbligo verso servizi sociali e istituzioni minorili. Forse sono dettagli che non inficiano il coraggio di una perorazione apertamente filo lesbica in un paese che sembra ancora considerare reato la devianza sessuale. Questo è l’unico punto a favore di un film che, per altro, si presenta prevedibile e stilisticamente assai poco originale.
Intorno alla metà degli anni settanta Renée Le Roux era l’azionista di riferimento del gruppo che controllava Le Palais de la Mediterranèe, uno dei casino di Nizza. Fu estromessa da un colpo di mano organizzato da uno dei boss dell’‘ndrangheta calabrese in accordo con il sindaco della città, interessato a radere al suolo l’edificio che ospitava la casa da gioco per fare spazio all’ennesimo residence di lusso. Per la serie: le disgrazie non arrivano mai sole l’operazione di defenestramento della matura gestrice fu resa possibile dal tradimento della figlia, sobillata da un arrampicatore sociale, Maurice Agnelet, amante di sua figlia Agnès e che funzionò come infiltrato dell’uomo della criminalità organizzata. Pochi mesi dopo il colpo di mano la ragazza scomparve senza lasciare traccia. La madre intraprese una dura lotta giudiziaria contro il supposto assassino della figlia che si era impossessato del patrimonio dell’amante ed era fuggito in America Latina. Dopo vari processi è arrivata una condanna, ottenuta anche grazie al figlio dell’indiziato che confessò le confidenza del padre che gli aveva rivelato di aver ucciso la ragazza in Italia dopo averla attirata in Calabria con il pretesto di un fine settimana romantico. Questa drammatica vicenda è stata ricostruita da André Téchiné in L’homme qu’on amait trop (L’uomo che abbiamo troppo amato), una bella ricostruzione di taglio televisivo impreziosita da un gruppo di attori fra i quali spicca Catherine Deneuve nel ruolo della madre. Il film fa rivivere con precisione filologica quegli anni, dagli abiti alle musiche, ma non va oltre il cinema tradizionale di buona confezione.
Michel Hazanavicius ha assunto fama internazionale dopo aver vinto il premio Oscar con The Artist (2011) da lui scritto e diretto, un film che focalizza il passaggio dal muto al sonoro. Il riferimento al cinema del passato è anche in The Search (La ricerca) che riprende, anche se alla lontana, una pellicola del 1948 diretta da Fred Zinnemann, Odissea tragica, che racconta una storia drammatica legata allo sterminio degli ebrei ad Auschwitz. Nel nuovo testo la vicenda si sposta in Cecenia, durante la seconda guerra (1999 – 2009) in cui l’Armata Rossa invase il territorio della repubblica indipendente con il pretesto di distruggere le basi da cui muovevano i terroristi caucasici. Fu un vero e proprio massacro che colpì 40 mila persone, la maggior parte civili. Il film ruota su tre storie l’ultima delle quali nel finale si ricollega alle altre. La prima vicenda è quella di un ragazzino cui i soldati di Mosca uccidono i genitori, pacifici contadini, e rapiscono la sorella. Lui rimane solo con un fratellino e inizia a girovagare in campi e villaggi devastati dalla guerra. Ben presto è costretto ad abbandonare l’infante e finisce in una cittadina Russa dove incontra una funzionaria dell’ONU che lo salva dalle violenze dalla strada e, lentamente, gli fa riprendere la capacità di parlare che aveva perso subito dopo aver assistito all’uccisione dei genitori. La seconda storia è quella di sua sorella che, uscita dalle grinfie degli occupanti, vaga alla ricerca dei fratelli. Li ritroverà sia grazie alla solidarietà dei corregionali mussulmani, sia grazie all’abdicazione dei funzionari stranieri, prima fra tutte la donna che aveva salvato suo fratello. La terza storia è quella di un giovane russo che, sorpreso a fumare hashish, è costretto a scegliere fra la prigione e l’arruolamento nell’esercito. Opta per questa seconda possibilità e ha modo di sperimentare la crudeltà e la violenza che allignano nei ranghi dell’armata. Sarà lui uno dei militari, induriti e impauriti dalle violenze subite, che parteciperanno all’uccisione dei genitori del ragazzino. Il film ha una struttura narrativa molto tradizionale, un andamento prevedibile dalla prima all’ultima sequenza, ed è percorso da un sentimento ferocemente antirusso poco motivato. Sia chiaro: nessuno si fa illusioni sulle violenze e i veri e propri crimini perpetrati dall’Armata Rossa in Cecenia, come in Afghanistan, ma ciò che disturba è la santificazione indiscriminata dai ceceni senza neppure un accenno alle decine di morti, anche loro civili innocenti, causati dagli attentati terroristici in Russia. In definitiva un film piatto e prevedibile.
L’ottantatreenne Jean-Luc Godard ha concesso al festival di presentare, in concorso, la sua ultima fatica Adieu au Langage (Addio al linguaggio), ma non si è risparmiato di ricorrere alle solite provocazioni sia non venendo a Cannes, sia qualificando la rassegna niente più che un congresso di dentisti. Se non fosse per il rispetto che si deve al passato di un cineasta che ha firmato grandi film contribuendo non poco alla modernizzazione del linguaggio cinematografico, verrebbe voglia di liquidare il tutto come la bizzarria di un anziano immusonito. In realtà il film non esiste, quanto meno nel senso tradizionale del termine, c’è solo una sequenza di immagini tridimensionali accompagnate da citazioni di brani letterari Per buona parte della proiezione lo schermo è occupato da un cane che il regista individua come una sorta di rinascita dello spirito umano. Non mancano le sequenze non convenzionali (il sesso di un uomo e una donna in primo piano, i soliloqui del primo mentre defeca) ma non servono a dare un minimo senso ad un’opera che potrebbe essere etichettata più come una performance che non un film vero e proprio.
La sezione Un Certain Regard ha presentato un film cinese inseribile nel filone di quel cinema che mira a rappresentare le dure condizioni di vita celate sotto il luccichio del miracolo economico. Fantasia di Wang Chao mette in scena una famiglia distrutta da malattie e disoccupazione. Il padre sta morendo di leucemia, la madre – da tempo disoccupata – tira avanti con vari lavoretti, il figlio marina la scuola per aiutare alcuni ladri a rubare pezzi di ferro, la sorella finisce col prostituirsi in un locale notturno. Il solo raggio di sole sembra essere quello fatto intravvedere da un battello, in verità piuttosto sgangherato, attraccato alla riva del fiume, ma anche questo scompare proprio quanto il figlio sembra aver più bisogno d’aiuto. E’ un quadro disperato da cui emergono le condizioni disastrose della sanità pubblica, il dramma della disoccupazione non protetta, la corruzione e l’illegalità. Un panorama orribile che fa da efficace contraltare ai lustrini dello sviluppo economico accelerato. In rilievo la scena in cui il padre moribondo rivive uno sprazzo di gioventù mente fa ginnastica al suono degli slogan del Grande Timoniere Mao Zedong (1893 – 1976).
Mommy (Mammina) del canadese Xavier Dolan - regista, sceneggiatore, attore e doppiatore – mette in scena una forte tragedia familiare. Lei è vedova da tre anni ed è costretta ad allevare da sola un ragazzo aggressivo e mentalmente disturbato. La madre nega cocciutamente i problemi del figlio sino al momento in cui le sue mattane e la sua aggressività, anche verso di lei, la costringono a prenderne atto e ad affidarlo ad un ospedale psichiatrico. Il film è ambientato in un Canada immaginario, dell’immediato futuro, dove è stata appena varata una legge che consente ai genitori di figli con difficoltà di rinunciare alla patria potestà in favore dello Stato. Come si può capire, anche da queste poche righe, il film punta molto sulla performance della protagonista, su quella del ragazzo e della misteriosa vicina che si unisce a loro in un rapporto non privo d’ambiguità. In questo Anne Dorval, Antione Oliviere Pilon e Suzanne Clément danno un contributo fondamentale alla riuscita del film. Nel complesso un’opera che si ricollega ai testi precedenti di questo regista, soprattutto Laurence Anyways (Laurence comunque, 2012) e Tom à la ferme (Tom nella fattoria, 2013), in cui si focalizzavano i sentimenti adolescenziali e li si mettevano a confronto con il sentire degli adulti, spesso scelti fra personaggi non proprio ordinari. Nel film odierno l’accento è spostato fortemente verso la seconda componente del discorso e questo richiede alle sue attrici, soprattutto ad Anne Dorval che ha il ruolo della madre, una prestazione di grandissima intensità. In definitiva un buon film d’attrici che racconta una storia non particolarmente originale.
Con Jimmy’s Hall (La sala di Jimmy) Ken Loach è ritornato in Irlanda pochi anni dopo lo scenario delle lotte per l’indipendenza dell’isola (1919 – 1923) che erano al centro di Il vento che accarezza l'erba (The Wind That Shakes the Barley), Palma D’Oro al Festival di Cannes 2006. Siamo nel 1932 e Jimmy Gralton ritorna in patria dopo aver passato dieci anni negli Stati Uniti. Vorrebbe vivere tranquillo con l’anziana madre, ma i giovani del paese lo spingono a rimettere in funzione la sala da ballo e di ritrovo che aveva costruito a pochi metri da casa sua e che ora giace in stato di abbandono. L’iniziativa scatena sia le ire della chiesa, che vi vede una minaccia al suo ruolo di educatrice e guida, sia l’opposizione dei movimenti di estrema destra che ben conoscono le simpatie comuniste di Jimmy. Dopo un alternarsi di scontri e minacce gli avversari della sala hanno la meglio e, grazie a un cavillo giuridico, il proprietario del locale sarà espulso verso gli Stati Uniti e non ritornerà più in Irlanda perché bandito per sempre dall’isola. E’ la vera storia di uno dei tanti militanti di sinistra che si scontrarono - in quegli anni, ma anche dopo - con i militanti anglo – fascisti. Il film, sicuramente non uno dei più originali di questo cineasta, si fa apprezzare per la limpidezza dello stile, la passione della narrazione, la coerenza politica. Il regista ha detto che, dopo una trentina di lungometraggi e alla vigilia degli ottant’anni (è nato nel 1936), questo sarà il suo ultimo lungometraggio, ma le proteste per questo suo annuncio sono state così immediate e corali da indurlo a precisare che, anche se non farà più film di finzione, il documentario esercita ancora un forte fascino su di lui. Un’ottima notizia.
Ed è ora il turno di Leviathan di Andrey Zvyagintsev. Ecco la storia: Kokia abita in una vecchia casa, sopra la sua autofficina, entrambi gli edifici si affacciano su un panorama meraviglioso del Mare di Barents, nel nord della Russia. La sua proprietà fa gola al sindaco della città, un politicante senza scrupoli ammanigliato con la chiesa ortodossa e in combutta con un’importante azienda, che vuole costruire su quel terreno un grande edificio. Cerca di comperarlo, ma dopo il rifiuto del proprietario, lo fa confiscare per presunte ragioni di pubblica utilità. Ne nasce un processo in cui lo spossessato è rappresentato da un abile avvocato arrivato da Mosca. L’ex – proprietario non si arrende e ricorre in appello, mente il legale presenta al politicante un dossier con notizie molto gravi sul suo operato. A questo punto il sindaco decide di passare alle vecchie maniere, vale a dire intimidazioni e botte. Il suicidio della moglie del cocciuto oppositore, dopo una fuggevole relazione con l’avvocato, offre al traffichino il pretesto per levarsi di torno definitivamente il nemico condannato a quindici anni di prigione con l’accusa, priva di qualsiasi prova, di aver ammazzato la moglie. Le ultime immagini ci mostrano le ruspe che distruggono la casa frantumando oggetti d’uso e libri. Il film disegna uno dei tanti ritratti della Russia dei nostri giorni, con il suo carico di corruzione, illegalità, violenza. Il titolo cita il mostro marino evocato nella Bibbia come immagine del caos primordiale e il film giustifica il riferimento con le immagini dello scheletro di un grande pesce andato a morire sulla spiaggia su cui si affaccia il terreno conteso. La parte melodrammatica – la relazione fra la moglie e l’avvocato – non si salda del tutto con il resto del racconto che acquista forza nei momenti in cui svela le trame del potere, le complicità fra politici e religiosi, il clima d’impotenza, disperazione e alcolismo diffuso che segna la vita della gente comune del tutto incapace ad apporsi a soperchierie e illegalità.
Olivier Assayas è uno dei nomi di prestigio del cinema francese. Il suo penultimo film, Qualcosa nell'aria (Après mai, 2012) è stato presentato all’ultima Mostra di Venezia ricevendo un’accoglienza contrastata. Il suo è un cinema molto parlato in cui i dialoghi hanno ruolo eguale e, spesso, maggiore delle immagini. Questa è la condizione anche di Sils Maria in cui un’attrice famosa (Juliette Binoche) si confronta con il testo teatrale Maloja Snake (Il serpente di Maloja) del drammaturgo tedesco Wilhelm Melchior (1935 – 2010), copione che lei ha già interpretato venti anni prima nel ruolo di una giovane ambiziosa che induce al suicidio un’altra donna più anziana e che ora rivive nei panni della protagonista più anziana, avendo come antagonista una giovane stella hollywoodiana. Il titolo del copione si rifà ad un fenomeno atmosferico che si verifica in valle Engadina in autunno, poco dopo il levar del sole, quando le nuvole invadono la vallata con un movimento sinuoso che ricorda le movenze di un serpente. La situazione al centro del testo teatrale si ripete nella vita reale fra l’attrice e la sua giovane assistente che, come sul palcoscenico, ad un certo punto scompare (morte accidentale? suicidio? fuga?). E’ un tipo di cinema molto francese, con abbondanti passaggi intellettuali (citazioni, riferimenti complessi, passaggi psicologici) che possono piacere o disturbare, ma che hanno poco a che vedere con un’idea di cinema basato prevalentemente sulle immagini. In questo il regista conferma la sua predilezione verso il detto più che il visto tanto che le sequenze che collocano le protagoniste fuori da un ideale palcoscenico danno un rappresentazione quasi cartolinesca delle alpi svizzere. Certo questo è anche il prezzo pagato alla sponsorizzazione dell’ufficio per il turismo elvetico (fra i finanziatori del film), ma è anche il segno di una difficoltà di questo cineasta ad uscire dal chiuso delle stanze per affrontare la vita nelle strade.
La sezione Un Certain Regard ha presentato Charlie’s Country (Il paese di Charlie) del cineasta olandese Rolf de Heer che è andato sino in Australia per raccontare la storia di un aborigeno, Blackfella Charlie, privato delle sue radici culturali e costretto a vivere in una sorta di riserva indiana nella parte nord del continente. Lui deve forzatamente confrontarsi con una società di bianchi che emarginano o reprimono la sua gente. Finirà in prigione e quando ne uscirà saprà ritagliarsi un ruolo insegnando ai ragazzi le danze del loro popolo, un modo come un altro di mantenere vive le radici culturali della sua gente. Il film spezza una lancia forte e partecipe a favore di queste comunità di nativi che gli invasori, soprattutto anglosassoni, hanno avvelenato con l’introduzione dell’alcol, similmente a quanto accaduto agli indiani d’America, e che ora trattano alla stregua di animali domestici. Come in altri casi, un ruolo di primo piano lo ha il paesaggio, con scorci di grande suggestione e colori meravigliosi.
Cannes 2014 e… i potenziali candidati ai prossimi Oscar
Quest'anno il Festival di Cannes ha presentato una serie di ‘papabili candidati’ ai i prossimi Oscar: da Steve Carell, meraviglioso interprete di Foxcatcher diretto da Bennett Miller (film incentrato sulla vita del miliardario John du Pont, interpretato da Carell, ossessionato dai lottatori olimpici Mark Schultz, interpretato da Channing Tatum, e dal di lui fratello, David, interpretato da Mark Ruffalo), a Timothy Spall, protagonista di Mr. Turner (un ritratto del pittore britannico JMW Turner), diretto da Mike Leigh. Ancora, vanno aggiunti all’elenco: Tommy Lee Jones (che ha ricevuto una standing ovation per il suo film The Homesman), e Ryan Reynolds (davvero in parte nelle vesti di padre la cui figlia è scomparsa da otto anni in The Captive di Atom Egoyan). E poi, ecco una donna, e che donna: Julianne Moore, incredibile in Maps to the Stars di David Cronenberg (in cui interpreta un'attrice che vede la carriera scivolare via).
Cannes e il team italiano
Il messaggio del manifesto scelto dal Festival come immagine di quest’anno era chiaro: il cinema Italiano è tornato e i suoi protagonisti sono indimenticabili. A dare il volto alla 67esima edizione del Festival di Cannes è, infatti, l’indimenticabile Marcello Mastroianni in un’immagine tratta da 8 ½ di Federico Fellini (film che è stato presentato nel 1963 al Festival di Cannes). Se a ciò si aggiunge che il vero tocco di glamour del Festival è stato donato con grazia da star del cinema italiano, quale la leggendaria Sophia Loren (arrivata a Cannes per una proiezione speciale del suo nuovo film, La Voce Umana cortometraggio diretto dal figlio Edoardo Ponti), allora il gioco è fatto. Tutta la magia del cinema che fu, è stato poi rievocato durante la proiezione di una copia restaurata di Matrimonio all'italiana, pellicola del 1964 diretta da Vittorio De Sica che ha toccato il pubblico presente al punto da dedicare alla Star italiana 5 minuti di applausi, che hanno portato la Loren alle lacrime. Il film che valse alla Loren la sua seconda nomination all'Oscar come Miglior attrice. Sempre in tema di cinema italiano, quest'anno il leitmotiv dominante è stato quello riguardante il raggiungimento della maggiore età, con le pellicole incentrate sui giovani attori e attrici alle prese con l'adolescenza, come testimoniano le pellicole di Alice Rohrwacher (che per il suo nuovo film, Le Meraviglie, ha arruolato attori di grande talento guidati da Monica Bellucci e da Alba Rohrwacher,), e di Asia Argento (che nel suo film, Incompresa, ha avuto il privilegio di dirigere Charlotte Gainsbourg). Idem dicasi per l’unico film italiano passato ne La Settimana della Critica, Più buio di mezzanotte, diretto da Sebastiano Riso (che racconta la storia di David, l'esordiente Davide Capone, un ragazzo di 14 anni con problemi di identità che scappa di casa e trova un nuova famiglia in un luogo inaspettato). Oltre a questi tre nuovi film italiani, che hanno fatto il loro debutto al Festival di Cannes 2014, le versioni restaurate di quattro classici film italiani hanno avuto un ruolo importante: Matrimonio all’italiana di Vittorio De Sica, Per un pugno di dollari di Sergio Leone, La Paura di Roberto Rossellini e 8 -1/2 di Federico Fellini.
E il vincitore è...
La giuria, presieduta dalla regista Jane Campion (coadiuvata nel suo compito dai giurati Carole Bouquet, Sofia Coppola, Leila Hatami, Jeon Do-Yeon, Willem Dafoe, Gael Garcia Bernal, Jia Zhangke e Nicolas Winding Refn) ha consegnato la Palma d'oro al film Winter Sleep di Nuri Bilge Ceylan. Il premio Grand Prix della giuria è andato al film di Alice Rohrwacher Le Meraviglie, mentre Bennett Miller, regista di Foxcatcher è stato premiato come Miglior Regista. Miglior attore? Timothy Spall per il suo magnifico ritratto di JMW Turner in Mr. Turner di Mike Leigh. Julianne Moore ha vinto come miglior attrice per la superlativa performance nel film Maps to the Stars di Cronenberg.