12 Feb2013
Morricone Uncovered
Ennio Morricone
Morricone Uncovered (2012)
Ennio Morricone, Romina Arena
Perseverance Records PRD 056
15 brani – Durata: 57’05”
Tempo fa, occupandoci di una bella antologia morriconiana con ospite d’onore il giovane soprano neozelandese Hayley Westenra (“Paradiso”, Decca-Universal), osservavamo come il rapporto fra il maestro romano e le voci femminili sia sempre stato un rapporto privilegiato, “d’amore”, a partire dai siderali vocalizzi originali di Edda Dell’Orso per venire all’incontro con star di ogni latitudine e scuola o genere, dalla lirica al jazz, dal rock alla canzone d’autore, voci professioniste o occasionali: Katia Ricciarelli e Milva, Mireille Mathieu e Renée Fleming, Dulce Pontes e Anna Moffo, Florinda Bolkan e Lisa Gastoni, Amii Stewart e Celine Dion, per citare le prime che vengono alla memoria…
Molteplici i motivi di questo feeling: il principale forse risiede nella “cantabilità” distesa, amplissima, irraggiante del melodismo morriconiano, la cui orizzontalità armonica e intensità di fraseggio stimolano le doti di estensione “belcantistica” delle più talentuose, trasformando alcuni dei temi morriconiani in altrettanti lieder moderni di abbagliante, emozionante bellezza (si pensi solo a C’era una volta il West o C’era una volta in America…).
Ciò premesso va tuttavia aggiunto che nella sua pur lunghissima carriera a Morricone non era forse mai toccato di incrociare una personalità e una storia come quelle che porta con sé Romina Arena: la quale, a soli 32 anni, ha già alle spalle una vita che sembra il frutto di una sceneggiatura scritta a quattro mani da Martin Scorsese e Wes Craven, sotto la supervisione dall’alto dei cieli di Krzysztof Kieslowski. Palermitana, nata in una famiglia d’artisti (la madre è pittrice), Romina Arena si rivela subito come una bambina-prodigio: a 7 anni canta, balla, recita e sembra imperiosamente avviata ad una carriera di danzatrice classica internazionale, agevolata dalla strepitosa facilità nell’apprendimento delle lingue (ne padroneggia una decina, fra le quali bulgaro, greco, giapponese ed ebraico!). A tredici anni il primo incontro con Ennio Morricone, che ne rileva immediatamente le doti vocali e le consiglia di coltivarle e di studiare, prendendola sotto la propria protezione artistica. Ma a diciassette anni, in Sicilia, dietro le quinte di uno show televisivo Romina subisce l’aggressione di un fan squilibrato che l’accoltella alla gola, mandandola in coma e apparentemente stroncando qualunque sua speranza di proseguire la carriera. I medici sono categorici: Romina non canterà mai più.
Poiché tuttavia il Destino (altri lo chiamerebbero diversamente) scrive copioni spesso molto imprevedibili, dopo tre anni di riabilitazione Romina si ritrova con una voce unica al mondo, capace di cinque ottave di estensione, frutto di una faringe modificata proprio dalla ferita infertale. Nel frattempo si è trasferita con la madre negli Stati Uniti, dove il mondo è tutto sommato piccolo e nella comunità artistica italo-americana la solidarietà è un dovere prima che un bisogno: conosce così a Los Angeles Sal Pacino, padre di Al, che diviene il suo secondo mèntore e di fatto la “adotta” nella propria famiglia, introducendola nel mondo delle case discografiche. Con la sua voce prodigiosa e le doti di poliglotta, innestate su una volontà di ferro e un formidabile desiderio di riscatto, per Romina Arena si spalancano le porte del successo planetario (con l’immancabile eccezione dell’Italia, dove il detto “nessuno profeta in patria” si rivela sempre esponenziale, e dove la Nostra appare solo in qualche ospitata tv). Una ventina di album e cinque milioni di copie vendute sono il naturale, conseguente curriculum di quest’artista indomabile e generosa, attivissima anche sul fronte della beneficenza, e che in tutto questo tempo non ha mai smesso di amare e studiare la musica di Ennio Morricone, sino a divenirne una delle interpreti più forti e personali, ed a licenziare e produrre per la volitiva label californiana Perseverance di Robin Esterhammer questo splendido album di “cover”, per le quali Romina ha ripreso alcuni tra i più significativi e “cantabili” leitmotiv morriconiani aggiungendovi dei propri testi.
Si tratta del frutto di un lavoro collettivo su più fronti, che ha come risultante un album multiforme, eterodosso, con una forte impronta mitteleuropea e straordinariamente raffinato, sotto la direzione artistica del minore dei quattro figli del maestro, Giovanni Morricone, e coprodotto anche da Luigi Caiola, Giancarlo Ioppolo e Gergely Hubai, lo studioso autore del volume “Torn music” sulle partiture respinte, e qui firmatario nel booklet delle analitiche note sui singoli brani. Ciascuno dei quali si avvale di una grafica personalizzata, a cura di Melinda Surga e Kim Schimansky, con la riproduzione dei testi (che sono in inglese a tratti mescolato all’italiano, più francese e spagnolo), e una serie di disegni colorati, quasi abbozzati e “in”-definiti, ma chiaramente riferiti ai vari film, Cosmopolite anche le registrazioni (in linea con il profilo della giovane artista), avvenute tra Budapest, la California, Siracusa, l’Umbria e il Canada, affidate alla sensibilissima Dohnanyi Orchestra Budafolk sotto la direzione di Gabor Hollerung con orchestrazioni di Giovanni Lodigiani, Francesco Morettini, Luca Angelosanti e Daniele Falangone, allineate ad una sostanziale, profonda “fedeltà” alla scrittura originaria ma anche necessariamente piegate alle esigenze di una versione cantata da una personalità così spiccata.
Diciamo subito che i testi di Romina Arena (affiancata da Luca Angelosanti e Francesco Morettini, nonché da Rick Allison per il francese “Le vent et le cri” da Joss il professionista e da René Morones per “Mi corazon” da La piovra 5) non inseguono particolari ambizioni letterarie né eccessivi scrupoli metrici. Sono testi d’amore, ciascuno allusivo al soggetto del film, ma abbastanza generici ed in ogni caso concepiti per far risaltare le qualità della solista.
E queste ultime si rivelano davvero fuori dal comune. A parte l’estensione e la tecnica di emissione, squisitamente operistica (di diaframma e di petto) ma sufficientemente duttile da spaziare in ogni genere (per questi cantanti si è coniato il neologismo “popera”), ciò che colpisce in Romina Arena è il colore della voce: che, anche nel registro acuto e sovracuto – raro il ricorso al falsetto – conserva comunque un baricentro grave, scuro, corposo che ne accentua enormemente il potenziale drammatico. A ciò si aggiunga un fraseggio incredibilmente nitido, scandito e una padronanza del respiro che si traduce anch’esso in risorsa espressiva fondamentale.
Si sviluppa dunque da queste versioni un “pathos” a tratti impressionante, specie ove la scrittura morriconiana asseconda e sottolinea segnatamente quella “cantabilità” estesa, ariosa, drammatica cui facevamo cenno all’inizio: esempio-principe “Ti ho amato” ossia l’inarrivabile “Deborah’s theme” da C’era una volta in America di Leone, offerto con affascinante trasporto emotivo. Ma anche il primo dei due brani tratti da La leggenda del pianista sull’oceano di Tornatore, “What can I do?” (il secondo è “E un attimo”), nella sua linearità e nella semplicità dell’accompagnamento per piano e archi, sembra predisposto al sommesso e insieme disperato modulare della cantante. “Mi corazon” (scritto da Morricone insieme al figlio Andrea) e il meraviglioso “The woman in me” (quest’ultimo dalla Lolita di Adrian Lyne) rivelano un’insospettata fisionomia liederistica grazie alle intuizioni timbriche degli orchestratori (il volume della compagine ungherese è tenuto costantemente sotto controllo ma non in sottofondo) e al mantenimento di alcune caratteristiche strumentali tipicamente morriconiane, come i violini primi in rilievo a contrappuntare la voce. Analoga sorpresa si prova nel sentire volgersi in toccante, struggente “song” quello che eravamo abituati a conoscere come il “tema della morte” (di Sean Connery, in particolare) ne Gli intoccabili di De Palma, qui divenuto “Saying goodbye” e declamato sfruttando tutto il registro vocale di cui la Arena è in possesso, con il surplus di una “recitazione del canto” che colpisce al cuore. Di un romanticismo se vogliamo più convenzionale “Gioco d’amore” da Love affair – Un grande amore di Gordon Caron o “Solo noi” da Malèna, ancora di Tornatore, dove ci si ritrova tuttavia nuovamente ad ammirare la nobiltà, il palpitare, la sapienza delle pause, degli abbellimenti, dei contrasti dinamici che pulsano nella vocalità della cantante siciliana. Anche “Ritornerai dolce amore”, dal testo pacifista, tratto da Vittime di guerra di De Palma, appare inizialmente come una forzatura nei confronti di una partitura immensa, straziante e carica di un dolore universale: ma Romina Arena sceglie in questo caso una dizione inizialmente volitiva, poi quasi supplichevole, sfoggiando una veemenza irresistibile alla ripresa centrale della parte più nota e dolente del tema.
Pagina, nonché score e film, poco nota è “Return to me” da Il grande odio, zuccheroso melò bellico diretto nell’88 da Gregory Nava, ma che tra le corde vocali della Arena si trasforma in un trampolino virtuosistico di salti d’ottava: mentre “Le vent et le cri”, ricavato da quel Joss il professionista con Belmondo la cui partitura ebbe una gestazione alquanto travagliata (così ben ricostruita proprio da Hubai nel suo libro), svela un altro aspetto della voce di Romina Arena, ossia la sua quasi naturale “francesità”, in altri termini quella sotterranea, magnetica tensione (nei vibrati, nella pronuncia delle “r”, nella tensione spasmodica degli acuti) che è tipica dei migliori chansonniers d’Oltralpe. “Requiem of love” vede la cantante duettare con Marcello Giordani, con il singolare risultato che mentre il tenore siracusano tende ad “alleggerire” e a non “portare” la voce per non trasformare inopinatamente il brano in un’aria d’opera, la Arena canta da vero e proprio soprano, con un piglio quasi donizettiano.
“Il tempo sa” da Per qualche dollaro in più, secondo e da sempre meno studiato (anche musicalmente) capitolo della trilogia del dollaro leoniana, è forse la più singolare fra le trascrizioni dell’album: nessuno avrebbe infatti mai potuto immaginare che il fatale, inesorabile e crepuscolare tema del carillon che nel film scandisce il destino, e la memoria, dei protagonisti, potesse trasformarsi in una sorta di ballata mestamente predestinata, ed esposta dalla Arena con un canto quasi “parlato” e rassegnato. Un trionfo d’amore, dai titoli dei film ai testi delle canzoni, sono “Morire d’amore” da D’amore si muore di Carunchio, già cavallo di battaglia di Milva e di Mireille Mathieu, e “Se non fossi tu” da Questa specie d’amore di Bevilacqua: la prima offerta con voce potente, quasi virileggiante, deprivata di qualsiasi stucchevolezza, la seconda con passionalità ansiosa e su una tessitura a tratti impervia.
«Sono la voce delle donne con il cuore spezzato», ha detto di sé una volta Romina Arena. Ma, aggiungeremmo, anche la voce delle donne che non si arrendono mai…