11 Lug2013
Nino Rota Orchestral Works Vol. 2
Nino Rota
Nino Rota Orchestral Works Vol. 2 (2013)
Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi diretta da Giuseppe Grazioli
Decca 2 CD 481 0394
Cd 1, 15 brani – Durata: 53’00”
Cd 2, 15 brani – Durata: 51’00”
Prosegue con la seconda uscita il grande progetto dell’Integrale-Rota avviato dalla Decca con l’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi sotto la guida di Giuseppe Grazioli e l’accurata, filologica consulenza di Francesco Lombardi, le cui note di copertina arricchiscono il libretto accompagnatorio: progetto, ricordiamolo, avviato due anni fa nella scia del centenario della nascita del compositore e destinato a vedere la pubblicazione, entro quest’anno, di sei album in totale (ciascuno costituito da due cd) contenenti l’opera omnia del maestro, ivi comprese molte e preziose prime registrazioni assolute.
Questa seconda uscita ne comprende tre più una quarta, la suite da Le notti di Cabiria, 1957, di cui in realtà esistono alcuni – di fatto introvabili – precedenti (a parte le innumerevoli antologie rotiane con il tema principale), sotto forma di due cd (un Legend italiano del 1992 e un El Records inglese del 2011) con un’ampia suite della partitura abbinata a quella da La strada. E proprio la parte filmica di questa seconda uscita sembra volersi incaricare di ricordarci quanto eterodossi, fluidi e vasti fossero gli interessi stilistici del maestro, che affrontava le committenze con spirito culturalmente libero, impegno costante e varietà di colori spiazzante.
La suite d’apertura dal Guerra e pace di King Vidor (1956), ad esempio, non particolarmente eccelsa lettura tolstoiana in versione kolossal con un cast che comprendeva Henry Fonda, Audrey Hepburn e Mel Ferrer, ribadisce le coordinate imperiosamente classiciste e ottocentesche di Rota, qui alle prese con la sua prima importante produzione internazionale. L’orchestrazione è massiccia, tardoverdiana o addirittura verista, la manipolazione dei materiali (la “Marseillaise” che affiora nell’Introduzione) disinvolta e drammaturgicamente possente, l’eloquio melodico irresistibile e la vena salottiera (che trionferà, molto più coltamente, nel Gattopardo di Visconti) è ammantata di un’ironia sapientemente delicata, come si evince dal Valzer di Natasha.
Amarcord (1973) divenne rapidamente, quarant’anni fa, uno dei più popolari capitoli del pur straripante rapporto con Fellini: vi traspirava, come forse solo in La strada, quella vena di malinconia un po’ autentica un po’ furba, cantilenante e surreale, in cui Rota era sublime maestro. Il mesto ma sorridente temino discendente “Danzando nella nebbia”, che ha fatto il giro del mondo, ne è l’epitome, così come l’andatura bandistica e “passerellante” di “La figuraccia” sembra esasperare in chiave vagamente sinistra – ottima la lettura di Grazioli, che sfiora venature espressioniste - la cifra più grottesca del compositore, e “Le manine di primavera”, per la fisarmonica di Davide Vendramin, profuma inconfondibilmente di nostalgie di balera; mentre la compulsione, in “Lo struscio”, di hit all’epoca popolarissimi come “Quel motivetto che mi piace tanto”, “Stormy weather” e “La cucaracha”, ribadisce la diabolica abilità rotiana nell’appropriazione fagocitatoria di ogni materiale.
Sorprendente risulta l’ascolto del Concerto per trombone e orchestra del 1966, nel quale, a parte i funambolismi virtuosistici e dichiaratamente caricaturali richiesti al solista (strepitoso l’apporto del solista Giuliano Rizzotto), a stupire è soprattutto l’impianto funebre, quasi da “Trauermarsch” mahleriana del secondo movimento, un “Lento ritmato” dalle tinte foscamente drammatiche. E non meno rivelatore appare l’anomalo “Guardando il Fujiama”, un brano unico di quattro minuti risalente al 1976 e strutturato in un Andante, composto da Rota quale suo contributo – insieme ad altri compositori – a quel Giappone che ne ospitava in quell’anno una tournée, e inizialmente concepito come omaggio alle vittime di Hiroshima. Ne sortisce un brano dove le inflessioni orientalistiche si stemperano e a tratti si dissolvono in una scrittura ed in una strumentazione dense, tese, venate di tragicità e di dolore, molto lontane dal Rota smagato e lieve conosciuto altrove.
Storia a sé fa l’Andante sostenuto per il Concerto per corno e orchestra KV 412 di Mozart, scritto tra il ’58 e il ’59 per Sebastiano Panebianco, giovane studente allievo del Conservatorio di Bari che Rota diresse per un quarto di secolo, e concepito come “saggio finale” per il solista sotto forma di un movimento che andava a sostituire l’originale, perduto, completando così l’opus mozartiano. Qui (il solista, dall’emissione morbidissima e luminosa, è Sandro Ceccarelli) rifulge quella che era una delle caratteristiche preminenti di Rota: ossia la sua mostruosa capacità, anche improvvisatoria, di calarsi nei panni di qualsiasi epoca, compositore, stile e linguaggio, in un trionfo di “à la manière de”… A questa “chicca” in prima mondiale se ne aggiunge, nel primo cd, un’altra, ossia l’ouverture “La fiera di Bari” (1963), sorta di omaggio alla città di adozione di Rota, dove l’organico quasi jazzistico (5 sax e 5 tromboni) rinvia a Gershwin o al Bernstein di West Side Story, ma l’andatura saltellante e il sapore giocoso risentono fortemente del climax felliniano, ivi comprese citazioni e/o anticipazioni scoperte da numerose partiture per il regista romagnolo.
Le notti di Cabiria, che apre il secondo cd, non è tra i film più amati di Fellini né tra le più note partiture felliniane di Rota. Colpa forse di un colore inusitatamente triste, liederistico, pensoso (perfettamente allineato con la vicenda, del resto), che si dipana nell’ampio, accorato melodismo del tema di Cabiria, o nel tocco pianistico sospeso e liquescente (solista attentissima al fraseggio è Maria Silvana Pavan) de “L’illusionista”. L’impressione è di un’impalpabile ma inequivocabile infelicità, che a stento s’illumina di speranza nel cantabile esposto degli archi in “Ma la vita continua – Finale”.
Anche il Concerto per fagotto e orchestra, scritto tra il ’74 il ’77 quindi tra le ultime composizioni extramusicali di Rota, si inserisce in quella visione neoclassica e virtuosistica, sempre filtrate da un’ironia a tratti graffiante, tipica di Rota, oltre che nel suo rapporto stretto con i numerosi solisti incontrati durante la sua attività didattica. La struttura qui è fortemente accademica (Toccata, Recitativo, Andantino con sei variazioni) e consente al solista – pirotecnica la prestazione di Alarico Lenti – di sfoggiare tutte le proprie doti.
Nuovo omaggio alla Puglia adottiva è la ballata per corno e orchestra “Castel del Monte”, del ’74: brano dalla storia complessa e suggestiva, puntualmente ricostruita da Lombardi, e dedicato al misterioso castello eretto da Federico II nel XIII secolo, luogo eletto di studi storici, archeologici ed esoterici. La pagina, molto ampia, ha un’articolazione quasi narrativa, dove il solista (sensibilissimo e vibratile Giuseppe Amatulli) interagisce con l’orchestra in un continuo gioco di chiaroscuri, di rimandi leitmotivici e di interrogazioni enigmatiche, in una strumentazione a tratti ardita e misticheggiante.
L’ultima “world premiere recording” è fors’anche il capitolo più strepitoso di tutto questo secondo album rotiano, ossia “La scuola di guida”, un “idillio” su testo di Mario Soldati (grande amico di Rota ai cui film il musicista spesso aveva collaborato, da Le miserie del signor Travet, 1947, a Donne e briganti, 1950, tra gli altri): si tratta a tutti gli effetti di un lungo “quadretto” operistico per soprano e tenore commissionato dal Festival dei Due Mondi di Spoleto e messo in scena con la regia di Franco Zeffirelli. Ora, il rapporto di Rota con l’opera era notoriamente centrato sull’eredità pucciniana e verista, filtrata attraverso reminiscenze rossiniane: ma quel che qui emerge, nella versione orchestrata per l’occasione da Bruno Moretti, è la sapientissima ed esilarante vena parodistica, delegata ad una scrittura strumentale spezzettata, ammiccante, a tratti stravinskyana, e ad una tessitura vocale che sembra rileggere Mascagni e Giordano attraverso la lente deformante di certa post-avanguardia teatrale degli anni ’80 e ’90, e che in questa registrazione i due interpreti, Valentina Corradetti e Paolo Cauteruccio, restituiscono con una declamazione funambolica, partecipata e a tratti addirittura belcantistica.
Il libretto di Soldati, fatto scorrere su una lingua parlata quotidiana ma fitta di allussioni, doppi sensi e non-sensi, prevede un lui e una lei, il primo istruttore di scuola guida paziente sino ai confini dell’idiozia, la seconda aspirante patentata di una inettitudine siderale (l’esagerazione ridicola dei luoghi comuni sulla “donna al volante”), il cui incontro-scontro sulle più semplici operazioni da compiere per la guida di un veicolo approda alla fine ad un inevitabile incidente fortunatamente senza conseguenze per i due protagonisti, salvo quella di gettarli l’uno nelle braccia dell’altra.
Quasi uno sketch, arguto e malizioso quanto innocentemente romantico, che Rota arricchisce con una partitura ultracitazionistica e dichiaratamente beffarda, con slarghi patetici ed emotivi alternati a brusche impennate timbriche, dalla quale – pur senza condividere lo scomposto e osannante entusiasmo espresso a suo tempo da Alberto Arbasino – si evince una volta di più la vera natura, ad un tempo parassitaria e devota, irridente e commossa, del rapporto fra Rota e il melodramma operistico.
Dunque un secondo prezioso gioiello-contributo della Decca all’approfondimento del vastissimo e imprevedibile (anche perché in larga parte ancora sommerso) opus rotiano. Attendendo le prossime puntate…
Nino Rota Orchestral Works Vol. 2 (2013)
Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi diretta da Giuseppe Grazioli
Decca 2 CD 481 0394
Cd 1, 15 brani – Durata: 53’00”
Cd 2, 15 brani – Durata: 51’00”
Prosegue con la seconda uscita il grande progetto dell’Integrale-Rota avviato dalla Decca con l’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi sotto la guida di Giuseppe Grazioli e l’accurata, filologica consulenza di Francesco Lombardi, le cui note di copertina arricchiscono il libretto accompagnatorio: progetto, ricordiamolo, avviato due anni fa nella scia del centenario della nascita del compositore e destinato a vedere la pubblicazione, entro quest’anno, di sei album in totale (ciascuno costituito da due cd) contenenti l’opera omnia del maestro, ivi comprese molte e preziose prime registrazioni assolute.
Questa seconda uscita ne comprende tre più una quarta, la suite da Le notti di Cabiria, 1957, di cui in realtà esistono alcuni – di fatto introvabili – precedenti (a parte le innumerevoli antologie rotiane con il tema principale), sotto forma di due cd (un Legend italiano del 1992 e un El Records inglese del 2011) con un’ampia suite della partitura abbinata a quella da La strada. E proprio la parte filmica di questa seconda uscita sembra volersi incaricare di ricordarci quanto eterodossi, fluidi e vasti fossero gli interessi stilistici del maestro, che affrontava le committenze con spirito culturalmente libero, impegno costante e varietà di colori spiazzante.
La suite d’apertura dal Guerra e pace di King Vidor (1956), ad esempio, non particolarmente eccelsa lettura tolstoiana in versione kolossal con un cast che comprendeva Henry Fonda, Audrey Hepburn e Mel Ferrer, ribadisce le coordinate imperiosamente classiciste e ottocentesche di Rota, qui alle prese con la sua prima importante produzione internazionale. L’orchestrazione è massiccia, tardoverdiana o addirittura verista, la manipolazione dei materiali (la “Marseillaise” che affiora nell’Introduzione) disinvolta e drammaturgicamente possente, l’eloquio melodico irresistibile e la vena salottiera (che trionferà, molto più coltamente, nel Gattopardo di Visconti) è ammantata di un’ironia sapientemente delicata, come si evince dal Valzer di Natasha.
Amarcord (1973) divenne rapidamente, quarant’anni fa, uno dei più popolari capitoli del pur straripante rapporto con Fellini: vi traspirava, come forse solo in La strada, quella vena di malinconia un po’ autentica un po’ furba, cantilenante e surreale, in cui Rota era sublime maestro. Il mesto ma sorridente temino discendente “Danzando nella nebbia”, che ha fatto il giro del mondo, ne è l’epitome, così come l’andatura bandistica e “passerellante” di “La figuraccia” sembra esasperare in chiave vagamente sinistra – ottima la lettura di Grazioli, che sfiora venature espressioniste - la cifra più grottesca del compositore, e “Le manine di primavera”, per la fisarmonica di Davide Vendramin, profuma inconfondibilmente di nostalgie di balera; mentre la compulsione, in “Lo struscio”, di hit all’epoca popolarissimi come “Quel motivetto che mi piace tanto”, “Stormy weather” e “La cucaracha”, ribadisce la diabolica abilità rotiana nell’appropriazione fagocitatoria di ogni materiale.
Sorprendente risulta l’ascolto del Concerto per trombone e orchestra del 1966, nel quale, a parte i funambolismi virtuosistici e dichiaratamente caricaturali richiesti al solista (strepitoso l’apporto del solista Giuliano Rizzotto), a stupire è soprattutto l’impianto funebre, quasi da “Trauermarsch” mahleriana del secondo movimento, un “Lento ritmato” dalle tinte foscamente drammatiche. E non meno rivelatore appare l’anomalo “Guardando il Fujiama”, un brano unico di quattro minuti risalente al 1976 e strutturato in un Andante, composto da Rota quale suo contributo – insieme ad altri compositori – a quel Giappone che ne ospitava in quell’anno una tournée, e inizialmente concepito come omaggio alle vittime di Hiroshima. Ne sortisce un brano dove le inflessioni orientalistiche si stemperano e a tratti si dissolvono in una scrittura ed in una strumentazione dense, tese, venate di tragicità e di dolore, molto lontane dal Rota smagato e lieve conosciuto altrove.
Storia a sé fa l’Andante sostenuto per il Concerto per corno e orchestra KV 412 di Mozart, scritto tra il ’58 e il ’59 per Sebastiano Panebianco, giovane studente allievo del Conservatorio di Bari che Rota diresse per un quarto di secolo, e concepito come “saggio finale” per il solista sotto forma di un movimento che andava a sostituire l’originale, perduto, completando così l’opus mozartiano. Qui (il solista, dall’emissione morbidissima e luminosa, è Sandro Ceccarelli) rifulge quella che era una delle caratteristiche preminenti di Rota: ossia la sua mostruosa capacità, anche improvvisatoria, di calarsi nei panni di qualsiasi epoca, compositore, stile e linguaggio, in un trionfo di “à la manière de”… A questa “chicca” in prima mondiale se ne aggiunge, nel primo cd, un’altra, ossia l’ouverture “La fiera di Bari” (1963), sorta di omaggio alla città di adozione di Rota, dove l’organico quasi jazzistico (5 sax e 5 tromboni) rinvia a Gershwin o al Bernstein di West Side Story, ma l’andatura saltellante e il sapore giocoso risentono fortemente del climax felliniano, ivi comprese citazioni e/o anticipazioni scoperte da numerose partiture per il regista romagnolo.
Le notti di Cabiria, che apre il secondo cd, non è tra i film più amati di Fellini né tra le più note partiture felliniane di Rota. Colpa forse di un colore inusitatamente triste, liederistico, pensoso (perfettamente allineato con la vicenda, del resto), che si dipana nell’ampio, accorato melodismo del tema di Cabiria, o nel tocco pianistico sospeso e liquescente (solista attentissima al fraseggio è Maria Silvana Pavan) de “L’illusionista”. L’impressione è di un’impalpabile ma inequivocabile infelicità, che a stento s’illumina di speranza nel cantabile esposto degli archi in “Ma la vita continua – Finale”.
Anche il Concerto per fagotto e orchestra, scritto tra il ’74 il ’77 quindi tra le ultime composizioni extramusicali di Rota, si inserisce in quella visione neoclassica e virtuosistica, sempre filtrate da un’ironia a tratti graffiante, tipica di Rota, oltre che nel suo rapporto stretto con i numerosi solisti incontrati durante la sua attività didattica. La struttura qui è fortemente accademica (Toccata, Recitativo, Andantino con sei variazioni) e consente al solista – pirotecnica la prestazione di Alarico Lenti – di sfoggiare tutte le proprie doti.
Nuovo omaggio alla Puglia adottiva è la ballata per corno e orchestra “Castel del Monte”, del ’74: brano dalla storia complessa e suggestiva, puntualmente ricostruita da Lombardi, e dedicato al misterioso castello eretto da Federico II nel XIII secolo, luogo eletto di studi storici, archeologici ed esoterici. La pagina, molto ampia, ha un’articolazione quasi narrativa, dove il solista (sensibilissimo e vibratile Giuseppe Amatulli) interagisce con l’orchestra in un continuo gioco di chiaroscuri, di rimandi leitmotivici e di interrogazioni enigmatiche, in una strumentazione a tratti ardita e misticheggiante.
L’ultima “world premiere recording” è fors’anche il capitolo più strepitoso di tutto questo secondo album rotiano, ossia “La scuola di guida”, un “idillio” su testo di Mario Soldati (grande amico di Rota ai cui film il musicista spesso aveva collaborato, da Le miserie del signor Travet, 1947, a Donne e briganti, 1950, tra gli altri): si tratta a tutti gli effetti di un lungo “quadretto” operistico per soprano e tenore commissionato dal Festival dei Due Mondi di Spoleto e messo in scena con la regia di Franco Zeffirelli. Ora, il rapporto di Rota con l’opera era notoriamente centrato sull’eredità pucciniana e verista, filtrata attraverso reminiscenze rossiniane: ma quel che qui emerge, nella versione orchestrata per l’occasione da Bruno Moretti, è la sapientissima ed esilarante vena parodistica, delegata ad una scrittura strumentale spezzettata, ammiccante, a tratti stravinskyana, e ad una tessitura vocale che sembra rileggere Mascagni e Giordano attraverso la lente deformante di certa post-avanguardia teatrale degli anni ’80 e ’90, e che in questa registrazione i due interpreti, Valentina Corradetti e Paolo Cauteruccio, restituiscono con una declamazione funambolica, partecipata e a tratti addirittura belcantistica.
Il libretto di Soldati, fatto scorrere su una lingua parlata quotidiana ma fitta di allussioni, doppi sensi e non-sensi, prevede un lui e una lei, il primo istruttore di scuola guida paziente sino ai confini dell’idiozia, la seconda aspirante patentata di una inettitudine siderale (l’esagerazione ridicola dei luoghi comuni sulla “donna al volante”), il cui incontro-scontro sulle più semplici operazioni da compiere per la guida di un veicolo approda alla fine ad un inevitabile incidente fortunatamente senza conseguenze per i due protagonisti, salvo quella di gettarli l’uno nelle braccia dell’altra.
Quasi uno sketch, arguto e malizioso quanto innocentemente romantico, che Rota arricchisce con una partitura ultracitazionistica e dichiaratamente beffarda, con slarghi patetici ed emotivi alternati a brusche impennate timbriche, dalla quale – pur senza condividere lo scomposto e osannante entusiasmo espresso a suo tempo da Alberto Arbasino – si evince una volta di più la vera natura, ad un tempo parassitaria e devota, irridente e commossa, del rapporto fra Rota e il melodramma operistico.
Dunque un secondo prezioso gioiello-contributo della Decca all’approfondimento del vastissimo e imprevedibile (anche perché in larga parte ancora sommerso) opus rotiano. Attendendo le prossime puntate…