10 Apr2014
Mademoiselle De Sade e i suoi vizi
Bill Conti
Mademoiselle De Sade e i suoi vizi (1969)
Beat Records BCM 9508 – Edizione limitata 500 copie
17 brani – durata: 47’12”
Cosa ci fa il compositore premio Oscar per Uomini veri, il musicista della saga di Rocky, l’autore delle raffinatissime partiture di Gloria di Cassavetes e Karate Kid, in un porno-soft italiota di disarmante quanto innocua pruriginosità come questo? La risposta sta nelle date. In quell’anno di grazia 1969, il ventisettenne Bill Conti è di fatto un esordiente alle primissime armi, ancora ben lontano dall’ottenere i successi che lo consacreranno un compositore in prima linea nel cinema con le sue partiture seccamente squadrate, metropolitane, dai ritmi spigolosi e dalle suggestioni notturne. Peraltro, il film diretto da Warren Kiefer (al secolo Lorenzo Sabatini, secondo la prassi d’epoca degli pseudonimi), non ponendo sicuramente particolari problemi di drammaturgia né di ispirazione nella sua disinibita, giocosa ingenuità, lasciava libero Conti di attingere alle fonti di sua preferenza, più vicine alle proprie predilezioni. Che, come ci ricorda Fabio Babini nel booklet di accompagnamento a questa rara e pregevole riscoperta della Beat, sono nettamente e squisitamente jazzistiche.
Tuttavia si tratta di un jazz lontano culturalmente da quello che nei medesimi anni praticavano, per prodotti non troppo dissimili, compositori di casa nostra come Piero Umiliani, Teo Usuelli o Piero Piccioni: qui le referenze, come osserva puntualmente Babini, sono nettamente assimilabili alla lezione di maestri come Duke Ellington, Count Basie o – sul fronte del “free” - Anthony Braxton. Largo spazio è delegato al sax e agli orizzonti del blues (seq. 1), dopo un hit iniziale in puro stile popeggiante anni ’60 (“Juliette”), mentre si individuano immediatamente le predilezioni per ritmi fortemente accentati, insistenti, che sono già e saranno in seguito sempre più una caratteristica stilistica di Conti (seq. 3); sax e tromba dialogano strettamente sostenuti da una batteria pulsante e onnipresente, in uno stile che può essere conversevole (seq. 2) ma anche più ostico e “free”, malgrado la presenza dell’organo Hammond – un “must” del tempo – contribuisca a rendere il tutto più agilmente riconducibile al contesto dei “favolosi Sixties”. Proprio l’organo da solo, però, è il protagonista di una pagina apparentemente fuori contesto come la seq. 4, severamente chiesastica, a dimostrazione che il giovane musicista sapeva già ove necessario percorrere strade alternative e diversificate: ed in ogni modo anche il suo stile jazzistico appare spesso border line sul versante del “free jazz” più aggressivo ed esposto sul fronte dell’avanguardia (seq. 6), come si evince da alcune tracce in cui sembra già di essere dinanzi alle sonorità contratte, sperimentali di Gloria. In realtà questo soundtrack si propone, nella riproposta integrale in digitale e full stereo rimasterizzata per la Beat da Claudio Fuiano, come una serie di sessioni che spaziano attraverso linguaggi plurali e suggestioni variamente identificabili, spesso e volentieri sganciate dai vincoli (peraltro piuttosto deboli) imposti o suggeriti dal film: di qui la presenza di pennellate brasiliane a ritmo di bossa nova (seq. 7), o di impasti notturni e suadenti (seq. 8) dove però va rilevata la presenza costante, forte e in primo piano, dell’elemento ritmico in ogni sua sfaccettatura. Conti sembra anche fare il verso ad un certo côté canzonettaro nostrano (seq. 9), non senza una componente di ironia citazionistica, o ritmi ballabili da lounge bar (il “Juliette” n.2, affidato ad un carezzevole trombone e immerso in un’atmosfera alla Stan Kenton, con una serie di funamboliche variazioni pianistiche); persino la prassi di terminare i brani sfumando rimanda ad un’epoca ormai lontana, mentre la conversazione algida, ermetica tra flauto e pianoforte in “Dialoghi di immagini” rappresenta uno di quegli sconfinamenti nella musica di pura avanguardia che Conti praticherà spesso nel prosieguo della propria carriera ma che già in questa partitura d’esordio rivestono un ruolo fondamentale di straniamento e distanziazione. Affascinanti risultano poi alcune deviazioni milesdavisiane (seq. 10) sul tema principale, ripreso come song nella seq. 11, e particolarmente catturanti le ritmiche rapinose delle ultime due versioni di “Juliette” che Conti sembra aver concepito per consentire al pianoforte di svettare in una scrittura acrobatica, e agli ottoni di creare un sound scattante e surriscaldato.
Registrata nei leggendari studi romani di Dirmaphon, in via Pola, questa partitura si offre come un gioiello compositivo completamente disconnesso dalla modestia della committenza, a dimostrazione del talento già completamente presente nel giovane autore, ma anche del filo rosso che legava culturalmente una generazione di musicisti d’oltreoceano, decisi a contaminare il jazz classico statunitense con le influenze della musica colta europea, ed una cinematografia nostrana di serie B ma, proprio per questo, occasione di sperimentazione e ricerca in totale libertà.
Mademoiselle De Sade e i suoi vizi (1969)
Beat Records BCM 9508 – Edizione limitata 500 copie
17 brani – durata: 47’12”
Cosa ci fa il compositore premio Oscar per Uomini veri, il musicista della saga di Rocky, l’autore delle raffinatissime partiture di Gloria di Cassavetes e Karate Kid, in un porno-soft italiota di disarmante quanto innocua pruriginosità come questo? La risposta sta nelle date. In quell’anno di grazia 1969, il ventisettenne Bill Conti è di fatto un esordiente alle primissime armi, ancora ben lontano dall’ottenere i successi che lo consacreranno un compositore in prima linea nel cinema con le sue partiture seccamente squadrate, metropolitane, dai ritmi spigolosi e dalle suggestioni notturne. Peraltro, il film diretto da Warren Kiefer (al secolo Lorenzo Sabatini, secondo la prassi d’epoca degli pseudonimi), non ponendo sicuramente particolari problemi di drammaturgia né di ispirazione nella sua disinibita, giocosa ingenuità, lasciava libero Conti di attingere alle fonti di sua preferenza, più vicine alle proprie predilezioni. Che, come ci ricorda Fabio Babini nel booklet di accompagnamento a questa rara e pregevole riscoperta della Beat, sono nettamente e squisitamente jazzistiche.
Tuttavia si tratta di un jazz lontano culturalmente da quello che nei medesimi anni praticavano, per prodotti non troppo dissimili, compositori di casa nostra come Piero Umiliani, Teo Usuelli o Piero Piccioni: qui le referenze, come osserva puntualmente Babini, sono nettamente assimilabili alla lezione di maestri come Duke Ellington, Count Basie o – sul fronte del “free” - Anthony Braxton. Largo spazio è delegato al sax e agli orizzonti del blues (seq. 1), dopo un hit iniziale in puro stile popeggiante anni ’60 (“Juliette”), mentre si individuano immediatamente le predilezioni per ritmi fortemente accentati, insistenti, che sono già e saranno in seguito sempre più una caratteristica stilistica di Conti (seq. 3); sax e tromba dialogano strettamente sostenuti da una batteria pulsante e onnipresente, in uno stile che può essere conversevole (seq. 2) ma anche più ostico e “free”, malgrado la presenza dell’organo Hammond – un “must” del tempo – contribuisca a rendere il tutto più agilmente riconducibile al contesto dei “favolosi Sixties”. Proprio l’organo da solo, però, è il protagonista di una pagina apparentemente fuori contesto come la seq. 4, severamente chiesastica, a dimostrazione che il giovane musicista sapeva già ove necessario percorrere strade alternative e diversificate: ed in ogni modo anche il suo stile jazzistico appare spesso border line sul versante del “free jazz” più aggressivo ed esposto sul fronte dell’avanguardia (seq. 6), come si evince da alcune tracce in cui sembra già di essere dinanzi alle sonorità contratte, sperimentali di Gloria. In realtà questo soundtrack si propone, nella riproposta integrale in digitale e full stereo rimasterizzata per la Beat da Claudio Fuiano, come una serie di sessioni che spaziano attraverso linguaggi plurali e suggestioni variamente identificabili, spesso e volentieri sganciate dai vincoli (peraltro piuttosto deboli) imposti o suggeriti dal film: di qui la presenza di pennellate brasiliane a ritmo di bossa nova (seq. 7), o di impasti notturni e suadenti (seq. 8) dove però va rilevata la presenza costante, forte e in primo piano, dell’elemento ritmico in ogni sua sfaccettatura. Conti sembra anche fare il verso ad un certo côté canzonettaro nostrano (seq. 9), non senza una componente di ironia citazionistica, o ritmi ballabili da lounge bar (il “Juliette” n.2, affidato ad un carezzevole trombone e immerso in un’atmosfera alla Stan Kenton, con una serie di funamboliche variazioni pianistiche); persino la prassi di terminare i brani sfumando rimanda ad un’epoca ormai lontana, mentre la conversazione algida, ermetica tra flauto e pianoforte in “Dialoghi di immagini” rappresenta uno di quegli sconfinamenti nella musica di pura avanguardia che Conti praticherà spesso nel prosieguo della propria carriera ma che già in questa partitura d’esordio rivestono un ruolo fondamentale di straniamento e distanziazione. Affascinanti risultano poi alcune deviazioni milesdavisiane (seq. 10) sul tema principale, ripreso come song nella seq. 11, e particolarmente catturanti le ritmiche rapinose delle ultime due versioni di “Juliette” che Conti sembra aver concepito per consentire al pianoforte di svettare in una scrittura acrobatica, e agli ottoni di creare un sound scattante e surriscaldato.
Registrata nei leggendari studi romani di Dirmaphon, in via Pola, questa partitura si offre come un gioiello compositivo completamente disconnesso dalla modestia della committenza, a dimostrazione del talento già completamente presente nel giovane autore, ma anche del filo rosso che legava culturalmente una generazione di musicisti d’oltreoceano, decisi a contaminare il jazz classico statunitense con le influenze della musica colta europea, ed una cinematografia nostrana di serie B ma, proprio per questo, occasione di sperimentazione e ricerca in totale libertà.