22 Lug2014
Fantastic Voyage
Leonard Rosenman
Viaggio allucinante (Fantastic Voyage, 1966)
La-La Land Records LLLCD 1279 – Edizione limitata 2000 copie
13 brani – durata: 47’50”
Malgrado la lunga carriera, anche concertistica, le numerosissime partiture per cinema e televisione e l’Oscar vinto per Questa terra è la mia terra (1976, Hal Ashby; Intrada Special Collection vol. 716), la figura di Leonard Rosenman (1924-2008) è nota soprattutto per due fatiche speculari ma estremamente significative: lo score per La tela del ragno (1955, Vincente Minnelli; Film Score Monthly FSMCD Vol. 6, No. 14 ), prima produzione hollywoodiana a fregiarsi di un soundtrack interamente fondato sul metodo dodecafonico, e quello per l’adattamento musicale settecentesco di Barry Lyndon (1975, Stanley Kubrick; Warner Bros. 7599-25984-2), che gli era valso il primo Oscar.
In realtà Rosenman fu, insieme al posteriore Jerry Goldsmith, il compositore che introdusse di prepotenza nella produzione “mainstream” di Hollywood il concetto della modernità. Come ricorda Julie Kirgo nel booklet del presente album, il compositore era un fedele seguace della Scuola di Vienna e delle rivoluzioni linguistiche operate da Schoenberg, Berg, Stravinsky e Webern, suggestionato dalle tensioni dell’avanguardia europea e affascinato dalle potenzialità drammaturgiche che la Nuova Musica poteva esercitare sulla narrazione filmica. Applicò questa metodologia in tutti i generi, dal melò al western, dal cartoon alla fantascienza all’horror, con esiti innovativi spesso spiazzanti e dimostrando una onnivora curiosità intellettuale ed una inesauribile vena sperimentale: doti che, pressoché superfluo sottolinearlo, si esplicarono maggiormente nel genere fantastico, contenitore-laboratorio ideale anche e soprattutto sul fronte dei soundtrack.
Viaggio allucinante, firmato nel ’66 da Richard Fleischer e ricavato da un racconto di Otto Klement e Jerome Bixby, rispondeva bene ai requisiti di questa tipologia, unendo in sé le caratteristiche di fantascienza pura a quelle di fantamedicina e di fantapolitica; nella “missione impossibile” del sottomarino ridotto a dimensioni cellulari e iniettato, con a bordo un’équipe medica, nell’organismo di uno scienziato rimasto gravemente ferito in un attentato, si riassumeva infatti quell’atterrita ma irresistibile fascinazione per l’”infinitamente piccolo” che ha ispirato molta produzione similare, a cominciare dal celebre racconto di Richard Matheson “Tre millimetri al giorno”, da cui fu tratto nel ’57 il film Radiazioni BX: distruzione uomo di Jack Arnold, per arrivare fino a Salto nel buio (1987) di Joe Dante. La partitura di Rosenman aveva già visto la luce nel ’98 nella collana Silver Age Classics di Film Score Monthly, ma la ristampa La-La Land, nel remissaggio e rimasterizzazione di Michael MacDonald e Daniel Hersch, la ripropone e valorizza ora in una abbagliante, affilata presenza di suono. D’altronde proprio il suono, e il suo design (curato da Walter Rossi), era una delle componenti principali dell’architettura futuribile del film, come attesta qui il track iniziale dei Main Title basato su un esemplare campionario di “sound effects”: un suono nel quale la partitura di Rosenman, rigorosamente orchestrale e concepita per un vasto organico sotto la radiografica direzione dello stesso autore, si inserisce con inesorabile coerenza espressiva. Il lungo “The Proteus” d’apertura, per esempio, è pagina squisitamente weberniana nell’adozione del metodo seriale, ma all’interno di essa, nell’intrico elaboratissimo della stratificazione atonale e nell’arroventato, caotico magma di una strumentazione acuminata, ecco levarsi nitidissimo nei legni un tema di quattro note, lamentoso e perorante, che ritroveremo continuamente nel corso dello svolgimento musicale. Quanto dire che il compositore non rinunciava alle esigenze leitmotiviche pur all’interno di un contesto apparentemente così respingente. Il tema anzi possiede ampie possibilità di sviluppi variativi, come dimostrano “Cora trapped” o “Get the laser” e diviene cellula… (il termine ci pare appropriato) motrice e innervante di uno score minaccioso e a tratti esasperatamente descrittivo, dove la sinistra instabilità degli archi – con frequente ricorso al tremolo gelido dei bassi -, i gemiti dei legni e le secche interpunzioni degli ottoni concorrono a creare un clima di costante allarme e pericolo.
Suspense, tensione e paura dell’ignoto sono infatti le risultanti della partitura rosenmaniana, che non lascia spazio a convenzioni o luoghi comuni ma procede, con una scrittura di implacabile rigore, nel segno di una modernità sorvegliata e totalmente assorbita dal punto di vista culturale e metodologico; da manuale quasi didattico di metodo dodecafonico, infatti, l’utilizzo del leit-motiv in brani come “Pulmonary artery” o, cupamente affidato al clarinetto basso e poi ai tromboni con sordina, “Proteus moving through sac”. L’uso ricorrente delle cosiddette “quinte aperte” accresce il senso di vertigine e perdita di controllo, mentre la scelta timbrica di un pianoforte usato percussivamente e di percussioni a loro volta memori dei fantasmi bartokiani infonde nella partitura un’eco vitrea, alienante e labirintica. Il già citato “Cora trapped”, che inizia con un moto convulso di celli e bassi, è trafitto da rapidissime figurazioni dell’ottavino e accordi ribattuti di ottoni, in un’accelerazione dinamica soffocante mentre “The human brain” ripropone nei violini in sovracuto il tema principale contrappuntandolo con una seconda idea, di elegante quanto algido neoclassicismo tardostravinskyano. Quasi una suite a sè stante, con i suoi oltre sette minuti, “Get the laser” è una formidabile lezione di scrittura orchestrale che dichiara una strettissima e legittima parentela con i Tre pezzi per orchestra op. 6 di Alban Berg, nella nevrotica frammentazione di un fraseggio compresso, e nella radicale trattazione di alcune sezioni (fiati e archi in primis) fino a schiudere orizzonti che sembrano affacciarsi sul primo Nono o su alcune pagine di Berio. La tensione non sembra o non vuole sciogliersi nemmeno nel conclusivo, vittorioso “Optic nerve/End cast”, che costruisce un accumulo di materiali quasi inestricabile, facendo risuonare altissimo e insostenibile il leit-motiv e sfociando in una fanfara secca, violenta e dissonante che solo all’ultimo istante cede ad una risoluzione tonale, peraltro di bruciante rapidità.
Davvero si può affermare che grazie a lavori come questo e a figure (rare ma non rarissime) come Leonard Rosenman si abbatterono definitivamente le artificiose barriere intellettuali e culturali tra la Nuova Musica e la musica per film, arricchendo infinitamente gli orizzonti della prima e promuovendo la seconda ai vertici della ricerca linguistica del Novecento.
Viaggio allucinante (Fantastic Voyage, 1966)
La-La Land Records LLLCD 1279 – Edizione limitata 2000 copie
13 brani – durata: 47’50”
Malgrado la lunga carriera, anche concertistica, le numerosissime partiture per cinema e televisione e l’Oscar vinto per Questa terra è la mia terra (1976, Hal Ashby; Intrada Special Collection vol. 716), la figura di Leonard Rosenman (1924-2008) è nota soprattutto per due fatiche speculari ma estremamente significative: lo score per La tela del ragno (1955, Vincente Minnelli; Film Score Monthly FSMCD Vol. 6, No. 14 ), prima produzione hollywoodiana a fregiarsi di un soundtrack interamente fondato sul metodo dodecafonico, e quello per l’adattamento musicale settecentesco di Barry Lyndon (1975, Stanley Kubrick; Warner Bros. 7599-25984-2), che gli era valso il primo Oscar.
In realtà Rosenman fu, insieme al posteriore Jerry Goldsmith, il compositore che introdusse di prepotenza nella produzione “mainstream” di Hollywood il concetto della modernità. Come ricorda Julie Kirgo nel booklet del presente album, il compositore era un fedele seguace della Scuola di Vienna e delle rivoluzioni linguistiche operate da Schoenberg, Berg, Stravinsky e Webern, suggestionato dalle tensioni dell’avanguardia europea e affascinato dalle potenzialità drammaturgiche che la Nuova Musica poteva esercitare sulla narrazione filmica. Applicò questa metodologia in tutti i generi, dal melò al western, dal cartoon alla fantascienza all’horror, con esiti innovativi spesso spiazzanti e dimostrando una onnivora curiosità intellettuale ed una inesauribile vena sperimentale: doti che, pressoché superfluo sottolinearlo, si esplicarono maggiormente nel genere fantastico, contenitore-laboratorio ideale anche e soprattutto sul fronte dei soundtrack.
Viaggio allucinante, firmato nel ’66 da Richard Fleischer e ricavato da un racconto di Otto Klement e Jerome Bixby, rispondeva bene ai requisiti di questa tipologia, unendo in sé le caratteristiche di fantascienza pura a quelle di fantamedicina e di fantapolitica; nella “missione impossibile” del sottomarino ridotto a dimensioni cellulari e iniettato, con a bordo un’équipe medica, nell’organismo di uno scienziato rimasto gravemente ferito in un attentato, si riassumeva infatti quell’atterrita ma irresistibile fascinazione per l’”infinitamente piccolo” che ha ispirato molta produzione similare, a cominciare dal celebre racconto di Richard Matheson “Tre millimetri al giorno”, da cui fu tratto nel ’57 il film Radiazioni BX: distruzione uomo di Jack Arnold, per arrivare fino a Salto nel buio (1987) di Joe Dante. La partitura di Rosenman aveva già visto la luce nel ’98 nella collana Silver Age Classics di Film Score Monthly, ma la ristampa La-La Land, nel remissaggio e rimasterizzazione di Michael MacDonald e Daniel Hersch, la ripropone e valorizza ora in una abbagliante, affilata presenza di suono. D’altronde proprio il suono, e il suo design (curato da Walter Rossi), era una delle componenti principali dell’architettura futuribile del film, come attesta qui il track iniziale dei Main Title basato su un esemplare campionario di “sound effects”: un suono nel quale la partitura di Rosenman, rigorosamente orchestrale e concepita per un vasto organico sotto la radiografica direzione dello stesso autore, si inserisce con inesorabile coerenza espressiva. Il lungo “The Proteus” d’apertura, per esempio, è pagina squisitamente weberniana nell’adozione del metodo seriale, ma all’interno di essa, nell’intrico elaboratissimo della stratificazione atonale e nell’arroventato, caotico magma di una strumentazione acuminata, ecco levarsi nitidissimo nei legni un tema di quattro note, lamentoso e perorante, che ritroveremo continuamente nel corso dello svolgimento musicale. Quanto dire che il compositore non rinunciava alle esigenze leitmotiviche pur all’interno di un contesto apparentemente così respingente. Il tema anzi possiede ampie possibilità di sviluppi variativi, come dimostrano “Cora trapped” o “Get the laser” e diviene cellula… (il termine ci pare appropriato) motrice e innervante di uno score minaccioso e a tratti esasperatamente descrittivo, dove la sinistra instabilità degli archi – con frequente ricorso al tremolo gelido dei bassi -, i gemiti dei legni e le secche interpunzioni degli ottoni concorrono a creare un clima di costante allarme e pericolo.
Suspense, tensione e paura dell’ignoto sono infatti le risultanti della partitura rosenmaniana, che non lascia spazio a convenzioni o luoghi comuni ma procede, con una scrittura di implacabile rigore, nel segno di una modernità sorvegliata e totalmente assorbita dal punto di vista culturale e metodologico; da manuale quasi didattico di metodo dodecafonico, infatti, l’utilizzo del leit-motiv in brani come “Pulmonary artery” o, cupamente affidato al clarinetto basso e poi ai tromboni con sordina, “Proteus moving through sac”. L’uso ricorrente delle cosiddette “quinte aperte” accresce il senso di vertigine e perdita di controllo, mentre la scelta timbrica di un pianoforte usato percussivamente e di percussioni a loro volta memori dei fantasmi bartokiani infonde nella partitura un’eco vitrea, alienante e labirintica. Il già citato “Cora trapped”, che inizia con un moto convulso di celli e bassi, è trafitto da rapidissime figurazioni dell’ottavino e accordi ribattuti di ottoni, in un’accelerazione dinamica soffocante mentre “The human brain” ripropone nei violini in sovracuto il tema principale contrappuntandolo con una seconda idea, di elegante quanto algido neoclassicismo tardostravinskyano. Quasi una suite a sè stante, con i suoi oltre sette minuti, “Get the laser” è una formidabile lezione di scrittura orchestrale che dichiara una strettissima e legittima parentela con i Tre pezzi per orchestra op. 6 di Alban Berg, nella nevrotica frammentazione di un fraseggio compresso, e nella radicale trattazione di alcune sezioni (fiati e archi in primis) fino a schiudere orizzonti che sembrano affacciarsi sul primo Nono o su alcune pagine di Berio. La tensione non sembra o non vuole sciogliersi nemmeno nel conclusivo, vittorioso “Optic nerve/End cast”, che costruisce un accumulo di materiali quasi inestricabile, facendo risuonare altissimo e insostenibile il leit-motiv e sfociando in una fanfara secca, violenta e dissonante che solo all’ultimo istante cede ad una risoluzione tonale, peraltro di bruciante rapidità.
Davvero si può affermare che grazie a lavori come questo e a figure (rare ma non rarissime) come Leonard Rosenman si abbatterono definitivamente le artificiose barriere intellettuali e culturali tra la Nuova Musica e la musica per film, arricchendo infinitamente gli orizzonti della prima e promuovendo la seconda ai vertici della ricerca linguistica del Novecento.