Epic Hollywood: The Music of Miklós Rózsa
Miklós Rózsa
Epic Hollywood: The Music of Miklós Rózsa (2016)
City of Prague Philarmonic cond. by Nic Raine
Tadlow Music Tadlow 021
Cd 1, 14 brani – Durata: 46’39”
Cd 2, 17 brani – Durata: 43’57”
Appare ormai come un dato acquisito che esista, e si faccia sempre più corposa, una vera e propria storia dell’interpretazione applicata alla musica per film, esattamente come avviene per il repertorio classico. Ciò significa che le grandi partiture sinfoniche del passato più o meno recente vengono sottoposte continuamente a riletture, riesecuzioni, riproposte che ne arricchiscono o evidenziano tutte le sfumature, i dettagli, seguendo la sensibilità dei vari direttori e delle varie orchestre che vi si avvicendano. Ciò vale naturalmente per i compositori maggiori, da Herrmann a Steiner, da Ròzsa a Tiomkin, da Waxman a Korngold, da Goldsmith a Williams, da Barry a Gold: maestri la cui discografia si è arricchita nei decenni rivelandone la fisionomia e la statura “classiche” e assolute.
Ovviamente perché ciò sia possibile servono grandi bacchette e grandi compagini orchestrali. E qui si apre una prima, fondamentale differenziazione con il mondo della musica classica. I maggiori compositori della storia del cinema, infatti, sono generalmente anche ottimi esecutori e interpreti di se stessi, mentre è risaputo che giganti come Igor Stravinsky e Richard Strauss solevano distruggere da direttori quel che avevano creato come musicisti. Nei casi più eccelsi (Herrmann, Ròzsa, Alfred Newman) questi maestri riuscivano miracolosamente a coniugare le esigenze di frammentazione e sincronismo drammaturgico imposte dal linguaggio filmico con una resa musicale perfetta, coerente e personale, individuando ciascuno un “suono” che li caratterizzava in maniera esclusiva. Alcuni di loro poi (Herrmann, Williams) hanno sempre accompagnato la propria attività compositiva con quella parallela di direttori, applicandola al più vasto repertorio anche classico (si pensi alla lunga attività concertistica e discografica del primo, e all’esperienza con i Boston Pops del secondo) e rivelandosi così artisti in pieno possesso delle proprie risorse tecniche, dotati di una curiosità e vastità d’interessi culturali onnicomprensive (in ciò differenziandosi per esempio dal nostro Morricone, che teorizza e pratica unicamente e monopolisticamente l’esecuzione della propria musica).
Il problema è che i grandi direttori raramente si accostano alla musica per film, ancor oggi da essi considerata ancillare tranne che nei casi accademicamente altolocati (Prokofiev, Sostakovich, Rota…): le eccezioni di Zubin Mehta, Riccardo Muti, Antonio Pappano, Esa Pekka-Salonen e pochi altri confermano la regola. Resteremo dunque con l’inesausta curiosità di sapere cosa avrebbe potuto cavare Toscanini dagli scores anni ’40 di Ròzsa, o Karajan da Psyco o Vertigo di Herrmann, o Abbado e Sinopoli da Freud di Goldsmith. Rimanendo sul piano del reale, non si può che gioire dinanzi al susseguirsi di riproposte e reinterpretazioni di grandi partiture e grandi autori del passato da parte di orchestre ormai ad alto grado di specializzazione, guidate da direttori appassionati e competenti. Si tratta per l’appunto del caso della City of Prague Philharmonic Orchestra e di Nic Raine, talentuoso maestro britannico, strumentista e compositore in proprio (ma con minor caratura di John Debney, per citare un’altra figura che alterna la direzione alla composizione), il cui operato e il cui curriculum si muovono ormai da anni in perfetto equilibrio tra repertorio classico e cinematografico, e al quale vanno ascritti alcuni dei più notevoli e meritori capitoli della discografia cinemusicale recente. Lo stesso vale per la formazione cèca, le cui origini risalgono all’immediato secondo dopoguerra, dalla costola di quella che fu inizialmente la Fisyo praški simfonični orkester e poi la Filarmonica Ceca, e la cui attività in questo campo è ormai costante.
Al binomio Raine-Prague e alla Tadlow del produttore James Fitzpatrick – cui dobbiamo già tra l’altro una memorabile integrale del rozsiano Sodoma e Gomorra – va ora ascritto questo doppio cd “live” registrato lo scorso settembre nella Dvorak Hall del Rudolfinum di Praga, e dedicato spavaldamente ad alcune delle pagine più celebri e impegnative di Rózsa, rappresentative di quella “grandeur” – prevalentemente applicata al genere “peplum” – per la quale il compositore ungherese è legittimamente entrato nella leggenda. La popolarità della scaletta ovviamente si presta a confronti temibili, soprattutto con gli originali diretti dallo stesso autore: che, come accennavamo più sopra, è stato un meraviglioso, sontuoso e ineccepibile interprete di sé medesimo, come attesta la smisurata discografia in materia (si pensi solo ai tre vinili Polydor con la Royal Philharmonic editi ormai un quarantennio fa e recentemente ristampati in CD). E, in effetti, qualche problema si pone.
Raine è un direttore diligente, preciso, sapiente e preparato: qualità indispensabili ma forse non sempre sufficienti, specie alle prese con il vulcanico, ottocentesco, inesorabile sinfonismo rozsiano. Ne consegue che il maestro londinese sembra più a suo agio nell’estrarre dall’orchestra praghese le sonorità notturne, liriche e impressionistiche di Rózsa che non gli aspetti magniloquenti ed epici: come accade ad esempio nel Love Theme da El Cid, forse più che nell’incalzante Ouverture, dove la “hispanidad” festosa e ribollente si tinge di bagliori sinistri che richiederebbero un approccio molto più energico. Maggiormente in sintonia Raine sembra con Il ladro di Bagdad, dove le reminiscenze e il debito di Rózsa nei confronti di “Sheherazade” di Rimsky-Korsakov sono evidenti e vengono restituiti da Raine con una preziosa tavolozza di miniaturismi timbrici; particolarmente efficace poi il “Valse crepusculaire” e il “Finale” da Providence, una delle partiture più tarde del maestro ungherese, intrisa di malinconica cupezza “noir”, dove il pianoforte solista di Jaromir Kepac accarezza il movimento di danza con soffusa, chopiniana rassegnazione, mentre Raine aggredisce la chiusa strumentale pienamente consapevole del sentimento tragico che la attraversa. Anche la suite da Ivanhoe vibra di un fantasismo orchestrale fedele allo spirito originale, pur non sembrando Raine particolarmente interessato all’aspetto “filologico” che Rózsa curava in questo genere di partiture, enucleando dalle modalità della musica antica un rispetto e una devozione che andavano ben oltre le esigenze narrative; così come la meravigliosa, trasognata “Romanza” da Quo Vadis evoca un lirismo senza tempo soprattutto nelle parti scritte per i legni solisti; ma ad esempio, l’”Ave Caesar March”, sorta di epitome di tutte le “marce romane” di Rózsa, manca di quella secca, inesorabile, asettica brutalità che pulsa invece in tutte le versioni dirette dall’autore; e anche in Sodoma e Gomorra, qui presente con l’Ouverture e il “Theme and Answer to a dream”, Raine sembra privilegiare l’aspetto decorativo e fluentemente melodico della partitura su quello drammaticamente e imperiosamente conflittuale. Una maggior ricerca del colore orchestrale, cangiante e quasi picaresco, avrebbe poi giovato anche alla suite da Il settimo viaggio di Sinbad, che non figura certo fra le partiture più memorabili del maestro ma che ne sintetizza pienamente la caleidoscopica visione strumentale, mentre l’Intermezzo da Il Re dei re scorre forse con troppa uniformità, in una concezione pacata e fideistica che va a discapito dello spessore drammatico.
Se di difetti si può parlare in un’interpretazione comunque rigogliosa e appassionata, essi sembrano confluire nell’ampia suite da Ben-Hur, che di tutto questo genere di scores rozsiani costituisce senz’altro l’insuperato capolavoro. Qui grandiosità e sentimento, spirito di riscatto nella fede e profondo umanesimo, aggressività e tenerezza trovano una sintesi musicale perfetta in un’immensa partitura, che offre momenti molto diversi, ciascuno dei quali esigente un approccio particolare. L’imponenza accordale, michelangiolesca del Preludio, ad esempio, pretende sonorità massive, pesanti e insieme trasparenti, che non sempre Raine e i praghesi riescono a restituire; e se il Love Theme si snoda limpido e sufficientemente pensieroso, va segnalato il clamoroso errore esecutivo della “Rowing of galley slaves”, memorabile pagina di musica interna/mediata del film. L’accelerazione progressiva del rullo di timpani che scandisce la remata sempre più veloce degli schiavi incatenati esige una gradualità calibratissima, in un’escalation ritmica e drammatica che sfugge completamente di mano al direttore, il quale si lascia quasi immediatamente andare ad un galoppo convulso e inestricabile, che toglie tensione alla pagina bloccandola troppo presto in una soffocante alterazione metronomica; e anche qui, per la “Parade of the Charioteers” valgono le osservazioni che avanzavano per la Marcia di Quo Vadis.
Fuori contesto, come Providence, appaiono le due pagine da La vita privata di Sherlock Holmes, la seconda delle quali eseguita (insieme alla Marcia da El Cid) come trionfale bis per un pubblico in delirio: ossia “Gabrielle” e “Castles of Scotland”. Qui, anche grazie all’intensissimo canto del violino di Lucie Svehlova, la sintonia di Raine con il lato più gentile, nostalgico ed “europeizzante” di Rózsa appare evidente, mentre nel bis l’ottimismo elgariano e celebrativo della pagina trovano piena e sfavillante realizzazione.
Più che critiche, tutte queste sono annotazioni e riflessioni: ma il solo fatto che oggi vi sia materia per poterne discutere, come si farebbe per la Quinta di Beethoven o la Nona di Mahler, dev’essere per quanti amano la musica (senza aggiunte) motivo di grande soddisfazione.