08 Giu2007
The pursuit of happyness
Andrea Guerra
The pursuit of happyness (La ricerca della felicità, 2006)
Varèse Sarabande – VSD 6783
16 brani – durata: 40’10”
L’apertura è tutta in semplicità. Un tocco naïf nel disegno melodico; la mise-en-bande che si colora progressivamente di strumentazioni avvolgenti, a servizio delle corrispondenze di pianoforte, xilofono e legni. La delicatezza del tocco sanziona che la storia tra padre e figlio ha trovato il giusto dimensionamento musicale. Così è “Opening” – primitiva nella sua innocenza da lasciar affiorare memorie dell’Howard Shore di Big – ma non “Being Stupid”, secondo brano della selezione dallo score di Andrea Guerra per il primo Gabriele Muccino hollywoodiano presentata dalla Varèse; estratto che cambia sensibilmente registro dichiarando la prevalente impostazione di questo esordio del musicista riminese al fianco di Muccino dopo il mandato affidato a Paolo Buonvino. Decisamente Thomas Newman e John Powell, colti nel loro elemento più minimale e giocoso. Le rapide scorribande modulari dell’orchestra, la frammentazione in cellule motiviche, le interposte dilatazioni ambient s’impongono, strutturando la partitura in una rassegna di tipiche sonorità newmaniane – e annesse strumentazioni etniche – e variopinte miniautre powelliane. Si fa fatica a ritrovare il tema principale, raramente riportato alla lucentezza iniziale (“Where’s My Shoe”), mentre la vocazione alla postmodernità di scoring americano ha la meglio; servendo peraltro il film con indubbia aderenza. Un risultato certo funzionale, dove però la difficoltà nel rintracciare l’impronta più personale di Guerra – quella de La finestra di fronte e Cuore sacro, tra gli altri – si dimostra ben presto insormontabile. Plausibilmente sopraffatto dalle direttive di una produzione devota agli stilemi di maggior mercato (asservito, indiscutibilmente, proprio al neo-minimalmelodismo), il musicista sembrerebbe non aver trovato spazi consoni ad imposizioni stilistiche individuali. Difficile, d’altronde, presumere un deliberato e incondizionato sposalizio con la corrente di scoring d’oltreoceano proprio alla prima occasione importante nel circuito dell’enterteinment. L’auspicata prossima esperienza americana forse chiarirà il legittimo dubbio.
The pursuit of happyness (La ricerca della felicità, 2006)
Varèse Sarabande – VSD 6783
16 brani – durata: 40’10”
L’apertura è tutta in semplicità. Un tocco naïf nel disegno melodico; la mise-en-bande che si colora progressivamente di strumentazioni avvolgenti, a servizio delle corrispondenze di pianoforte, xilofono e legni. La delicatezza del tocco sanziona che la storia tra padre e figlio ha trovato il giusto dimensionamento musicale. Così è “Opening” – primitiva nella sua innocenza da lasciar affiorare memorie dell’Howard Shore di Big – ma non “Being Stupid”, secondo brano della selezione dallo score di Andrea Guerra per il primo Gabriele Muccino hollywoodiano presentata dalla Varèse; estratto che cambia sensibilmente registro dichiarando la prevalente impostazione di questo esordio del musicista riminese al fianco di Muccino dopo il mandato affidato a Paolo Buonvino. Decisamente Thomas Newman e John Powell, colti nel loro elemento più minimale e giocoso. Le rapide scorribande modulari dell’orchestra, la frammentazione in cellule motiviche, le interposte dilatazioni ambient s’impongono, strutturando la partitura in una rassegna di tipiche sonorità newmaniane – e annesse strumentazioni etniche – e variopinte miniautre powelliane. Si fa fatica a ritrovare il tema principale, raramente riportato alla lucentezza iniziale (“Where’s My Shoe”), mentre la vocazione alla postmodernità di scoring americano ha la meglio; servendo peraltro il film con indubbia aderenza. Un risultato certo funzionale, dove però la difficoltà nel rintracciare l’impronta più personale di Guerra – quella de La finestra di fronte e Cuore sacro, tra gli altri – si dimostra ben presto insormontabile. Plausibilmente sopraffatto dalle direttive di una produzione devota agli stilemi di maggior mercato (asservito, indiscutibilmente, proprio al neo-minimalmelodismo), il musicista sembrerebbe non aver trovato spazi consoni ad imposizioni stilistiche individuali. Difficile, d’altronde, presumere un deliberato e incondizionato sposalizio con la corrente di scoring d’oltreoceano proprio alla prima occasione importante nel circuito dell’enterteinment. L’auspicata prossima esperienza americana forse chiarirà il legittimo dubbio.