I basilischi & Prima della rivoluzione
Ennio Morricone
I basilischi (1963) / Prima della rivoluzione (1964)
GDM Music 4333 (2014)
11 brani (6 + 5) – durata: 43’17”
(I basilischi)
(Prima della rivoluzione)
Siamo da sempre convinti che la storia di Ennio Morricone musicista cinematografico sia cominciata nel 1964 con Per un pugno di dollari (per contro, l’impegno nella musica “assoluta” datava ben da prima, dal 1953 con la “Sonata” per ottoni, timpani e pianoforte, ed era proseguito sino al 1958 con tredici titoli per poi arrestarsi a causa dei numerosi impegni “alimentari” nel settore leggero, e riprendere nel 1969 con “Suoni per Dino”, e incrementarsi dalla seconda metà degli Ottanta) (1). Con il primo western leoniano il compositore assurge ad una notorietà inattesa – come imprevisto era stato l’enorme riscontro della pellicola - e “si immerge nella babilonia del cinema” (2) intraprendendo una carriera – una storia - che ha pochi termini di confronto e forse nessuno nell’ottava arte. Prima di quel film – dopo il quale il western e il cinema in toto non saranno più gli stessi - il maestro romano aveva musicato una scarna dozzina di lungometraggi, per lo più commedie, a partire da Il federale di Luciano Salce, esordio ufficiale (3) nella settima arte datato 1961. Era dunque di casa, e però entrato dalla porta di servizio, con pochi nomi di riferimento (oltre a Salce, Camillo Mastrocinque e, una tantum, Lina Wertmüller, Ricardo Blasco e Mauro Morassi/Dino Risi) ed una posizione marginale rispetto a un Nascimbene, un Lavagnino, un Rota, un Trovajoli, un Piccioni, un Ortolani già affermati e ricercati. Con l’exploit di Per un pugno di dollari accederà dall’ingresso principale e il suo nome rimarrà – e resta - nel bene e nel male legato al cinema. (Che poi ci siano in catalogo più o meno cento titoli di musica “assoluta”, la cosa pare non interessare alcuno. Non i promotori di concerti, rivisitazioni e “omaggi”, ridotti spesso ad uno stravolgimento selvaggio degli spartiti autografi (4); non le istituzioni musicali, che lo programmano poco; non gli studiosi e critici pur con le laudabili eccezioni di Sergio Miceli, Maurizio Corbella, Donatella Caramia, Franco Sciannameo, Alessandro De Rosa e qualche altro (5). In compenso, la sua musica del cinema inflaziona gli spot pubblicitari, (ri)applicata a soggetti spesso indegni, un amaro, una birra, un formaggio…: pecunia non olet).
La periodizzazione proposta non implica un giudizio valoriale, magari assecondando l’abusato cliché di un prima ancora incerto ed acerbo e un dopo caratterizzato da acquisizioni importanti. Il primo Morricone possiede già una maturità stilistica ed una cifra autoriale che si perfezioneranno nel tempo; e quelle prove d’inizio nel cinema offrono motivi di buon ascolto e spunti di grande interesse, in sé e in rapporto al dopo, con intuizioni che proseguiranno ed altre accantonate. Lì, egli offre di sé un profilo in parte retroattivamente nuovo, diverso da quello canonizzato nei concerti, più vario e segreto. Ed anche poco studiato. La monografia di Sergio Miceli analizza con puntiglio i molti settori del suo tirocinio, arrangiamenti, varietà, musiche di scena e per radiodrammi; ma per il cinema parte da Per un pugno di dollari (avallando a posteriori la nostra tesi). Un‘analisi di quella zona oscura (che prima o poi verrà sondata, infinite le diramazioni del percorso critico sul musicista; a tale riguardo, nessuno ha ancora pensato a ipotetici “Quaderni Morriconiani” con periodicità, poniamo, annuale, e contributi di musicisti, musicologi, cineasti, esperti di media e nuove tecnologie?) potrebbe rivelare un po’ di cose e schiudere parecchie sorprese. Il federale (6) mostra una già scaltrita coscienza del ruolo attivo della musica che diviene sia personaggio in quella marcetta sbilenca (7) specchio dell’ottusità dell’aspirante federale Primo Arcovazzi, fascista tetragono (un Tognazzi superlativo), sia “tema del viaggio” (buona parte della vicenda si configura come road movie in sidecar o, come un tempo si diceva, motocarrozzetta); ed è anche gioiosamente fruibile; e già si attua un positivo compromesso tra esigenze filmiche, di ascolto e di ricerca (8). Per non parlare del “Tema di Bonafé”, sorta di corale pausato dai silenzi, scritto per la figura del professore antifascista e devoto di Leopardi (George Wilson) catturato da Arcovazzi per essere consegnato al regime (che nel frattempo è caduto, ma lui non lo sa…). E poi, tutta la musica onirica ove già compare la firma morriconiana a siglare climi grotteschi, sospesi, ossessivi ed irrisolti (9).
L’adamantino esordio viene confermato dalle ottime prove jazzistiche ne Il successo e I due evasi di Sing Sing (10). Di quest’ultimo odi la musica (di Ennio Moriconi, sic) sui titoli di testa mentre scorrono i nomi degli interpreti impressi su foto segnaletiche, e sei in pieno gangster movie con quel crescendo di fiati esuberanti e minaccevoli (Umiliani è ormai distante): note che bucano e, (ri)ascoltate dopo cinque lustri e passa di latenza (11), sbalordiscono e rivelano un autore esegeta sottile di ogni forma musicale (troviamo anche bosse, night club music, momenti danzanti, pianino stile cinema muto). Ed anche interprete dell’anima nascosta del film che, è vero, con le gag di Franco & Ciccio precipita subito in commedia; però l’immagine di apertura, con la lenta zoomata all’indietro che offre la prospettiva del braccio della morte e le sbarre a latere ed alcune figure che avanzano verso la cella dei due condannati, è di una tetraggine tutta fulciana ed anticipa le atmosfere malate del suo cinema successivo; così come la conclusione, con la scelta dei due di rimanere per sempre confinati nel carcere per paura di finire sulla sedia elettrica nonostante la loro ormai riconosciuta innocenza, immette una nota di disagio che è nelle corde del regista: l’approdo all’horror era solo rinviato. Ecco: la musica ha raccontato la “storia nascosta”, Morricone si rivelava sin da subito “animale cinematografico”. Proseguendo la nostra recherche cinemusicale, non si possono trascurare La voglia matta (Luciano Salce, 1962), Le monachine (Id. 1963), la pièce La fidanzata del bersagliere (Edoardo Anton, 1963), saturi di invenzioni accattivanti e di elevata qualità (non sempre i due aspetti sono compresenti) che oggi ancora fanno gridare al miracolo.
Fra i titoli del primo periodo v’è anche I basilischi, film d’esordio di Lina Wertmüller (Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueichche) con il quale si aggiudicò la Vela d’argento al Festival di Locarno ed altri premi a Londra e Taormina. Niente male per un’opera prima. L’ispirazione venne da un soggiorno della futura regista a Palazzo San Gervasio, paese natale di suo padre, in Basilicata. Era il 1961. Incoraggiata da Tullio Kezich, che vedeva la possibilità di girare un film non convenzionale sul Sud, Lina scrisse soggetto e sceneggiatura e due anni dopo iniziarono le riprese tra Palazzo San Gervasio e Minervino Murge. Il budget era basso, si supplì reclutando gli attori tra conoscenti, ad esempio Flora Carabella moglie di Marcello Mastroianni (il fratello Ruggero sarà chiamato per il montaggio); in uno dei ruoli chiave, Stefano Satta Flores, anche lui agli inizi. La troupe prese sede in un appartamento che l’Inps aveva fatto costruire per i contadini e che concesse gratuitamente in uso per l’intera durata delle riprese (12). Si faceva cinema anche così allora, avventurosamente, arrangiandosi “in casa”: altri tempi. Non c’è storia, tutto il film è la presa d’atto di un’impossibilità d’agire, di migliorare, di cambiare. La (non) narrazione si sdipana in quadri singoli, tenuti insieme dall’inerzia che grava identica su vecchi, adulti, giovani: i primi a fine corsa, i secondi diffidenti e allergici per indole a mutare, gli ultimi velleitari, immaginosi, inconcludenti (“Hai venticinque anni e non sei stato capace di laurearti né di prendere moglie”). Anche il progetto di una cooperativa agricola locale naufraga nell’apatia di coloro che pure la potrebbero finanziare. Qualche cosa sembra muoversi quando giunge in paese la zia di Antonio, neghittoso studente universitario di giurisprudenza, e lo invita a trasferirsi a Roma. Dopo breve tempo il giovane fa ritorno, magnificando i mirabilia della capitale e intenzionato, a parole, a partire definitivamente. Ma il giorno stabilito, al suono della sveglia si volge dall’altra parte. Per lui e per gli altri vitelloni la vita proseguirà tra partite al circolo, andirivieni mani in tasca per la via principale e sbirciate alle beltà locali (ovviamente senza giungere a un dunque qualsiasi, la donna come ossessione cerebrale, motivo tipico), vani progetti che non avranno mai luogo. Aleggia un fatalismo mortifero (“questa è una morte lenta”), benissimo reso da tanta narrativa meridionale, Brancati, Tomasi di Lampedusa, e sintetizzato nel film dalla citazione da Giustino Fortunato, “Siamo quelli che la razza, il clima, il luogo, la storia, hanno voluto che fossimo”. Il titolo è sottile, plurivoco, allude sia al contesto geografico (basilisco sta per “abitante della Basilicata”), sia alla dimensione esistenziale, essendo il basilisco anche un rettile, una specie di sauro che ama stazionare al sole e capace di pietrificare con lo sguardo, e dunque riferimento all’immobilismo immedicabile. Girato nel poetico bianco e nero di Gianni Di Venanzo (direttore della fotografia per Fellini, Antonioni, Petri, Monicelli, Rosi), il film è agli antipodi del realismo. Il pretesto documentario lascia posto ad immagini sospese, fuori del tempo e della storia, come quelle riferite all’«ora sacra», la controra, il meriggio panico in cui tutti dormono tranne la voce femminile narrante, quando persone e cose ristagnano in un identico sopore; o ad altre di piazze deserte, biancicanti, dechirichiane; o di fuggevoli presenze femminili che passano per via, epifanie dell’attimo; e quel torpedone bombato, antidiluviano, che sferraglia, venuto fuori non sai da dove. Le sequenze corali dei raduni in piazza o al circolo, o ristrette ai microcosmi familiari, paiono dotate di maggiore concretezza, non fosse per un diffuso umorismo al limite dell’ironia che le avvolge in un clima di commedia surreale. Un film davvero bello, uno dei migliori della regista che nei successivi, più ambiziosi e meglio foraggiati, non riuscì a mantenere quella icastica semplicità. La relazione fu “piuttosto conflittuale” come ricorda il compositore nella sua autobiografia: “emerse un vizio di Lina che credo si portasse dietro da quando collaborava, nelle commedie teatrali di Garinei e Giovannini, con Gorni Kramer. Forse Kramer era più accondiscendente di me, e quando lei gli diceva ‘Cambiami questa nota’, lui l’accontentava. Io no. Nello stesso film mi fece adattare “Volti la lanterna!”, un pezzo Di Ezio Carabella, il padre di Flora […]: voleva che ne facessi un valzer. Io le dissi di inserirlo così com’era, ma alla fine mi arresi […]. Quando Lina mi chiamò per Mimì Metallurgico ferito nell’onore […], io rifiutai. Rimanemmo amici, ma non lavorai più con lei fino a Ninfa plebea (’96)” (13).
Se I basilischi è oggi ancora tanto ricco di fascino, lo si deve ad uno stile registico già maturo, asciutto ma partecipe, “poetico” senza leziosaggini ed amaro; alla magistrale fotografia che sfrutta l’intera gamma bianco/nero con una profondità di trapassi e sfumature dal nero di pece ai mezzi toni del grigio sino al bianco asfissiante e comatoso; e alla musica del maestro Morricone (per inciso, la triade Mastroianni-Di Venanzo-Morricone consente di parlare di confezione di lusso nonostante le ristrettezze del budget), profonda interprete delle (non)storie raccontate, sintesi di malinconia desolata e di grottesco beffardo. L’approccio è minimalista, in sintonia con lo spirito di una narrazione che si nega a se stessa: e dunque, organico ridotto, (quasi) assenza dell’orchestra, pochi strumenti in primo piano per lo più cordofoni, chitarra acustica, mandolini; utilizzo del fischio, qualche percussione, in un caso la tromba. Nessun cedimento al folklore. Un processo di scarnificazione che rende plastici ogni nota, ogni timbro. Si ascolti la “Cantata basilisca” che apre il film. La voce di Fausto Cigliano intona il testo della Wertmüller sullo sfondo sospeso dell’orchestra ridotta ad un sibilo e di seguito trasformata in una tessitura di archi sottili e sfumati, controcanto alla melodia lenta, dimessa, quasi statica, spleen di pregnante compostezza, sinergica con il cantato: Pe' o corso sempe 'annanzi e arreto sciamo a passeggià / nu giorno è uguale a n'auto giorno u 'tempo se ne va. / A la chiazza d'o Comune, solo solo, sai chi c'è?/ Michelino, che pe' cento lire canta e balla 'o twist. / E sento ogni tanto de quaccuno che se ne va / se ne va luntano a la grande città. // I razzi vanno sulla luna / nui restammo 'cà pe' o corso sempe 'annanzi e arreto sciamo a passeggià. Ne esiste anche una successiva versione in italiano, cantata da Gino Paoli, “Nel corso”, inserita nell’album del cantautore Basta chiudere gli occhi (1964) con un sottofondo orchestrale un poco più corposo e una coda al testo non presente nella versione film: Viene il sole / il sole muore / Viene la luna e se ne va / Ma sta vita / questa vita nostra / quando cambierà (14). Col titolo “Canzone” il brano viene eseguito in forma strumentale e con durata estesa (5’11” contro 2’39”). Mantenuto lo sfondo incorporeo con l’aggiunta di uno strano borborigmo nella ripresa, una chitarra acustica arpeggia il tema, una corda sola a siglare le note che avanzano a piccoli passi. Accompagna la consueta voce femminile fuori campo che nel finale commenta la non-partenza di Antonio, che “ha rimandato, domani… poi domani… poi domani… e intanto continua a raccontare di Roma, delle donne, quella con la catena d’oro intorno alla vita, quella con la parrucca e tanti brillanti, la bionda che beveva, la bruna che lo voleva lanciare nel cinema…le favole… parla, parla… tanto che non partirai più tutti l’hanno capito… e pure lui… perché… e chi lo sape… può essere che a Antonio gli manca qualche cosa, o forse ci manca a tutti quanti… è per questo che la vita nostra passa e facciamo così poco… così poco […] bah… Antonio continua a parlare di Roma, Francesco della cooperativa… e Roma e la cooperativa sono diventati solo un argomento per chiacchierare… perché, qua, si chiacchiera tanto… si chiacchiera… si chiacchiera. Ecco qua”. Esempio splendido e invero abbastanza raro di fusione di immagini e suoni che si uniscono in un amplesso profondo, e dove non distingui gli apporti del regista e del musicista. Ma anche un bel momento musicale in sé.
“Pomeriggio in paese” e “Ora incantata”, quasi identici, proseguono lungo la linea intimistica e crepuscolare ormai ben tracciata. Abbiamo ancora una melodia stanca, ripiegata, con rapide accensioni che non arrivano a brillare. Accompagna una chitarra pacata, intona il fischio, entrambi affidati a Daisy (Dasy) Lumini. Eh già, chitarra e fischio, un abbinamento che dovrebbe dirci parecchio. Ma, a scanso d’equivoci e di generici raffronti, qui non troviamo niente dei futuri western; si manifesta piuttosto la precoce propensione all’utilizzo della voce in tutte le sue forme. Non ancora Alessandroni, qui a fischiare è Daisy Lumini. Sapeva fischiare con arte (la chiamavano l’usignolo di Firenze e the singer with the whistle) e ben lo dimostra. Morricone arrangiò per lei alcune canzoni quali “Il gabbiano” e “Femmine d’estate” (15).
Accanto al registro evanescente e sommesso, quello più vivace, di un onirismo questa volta stralunato nelle due tracce “Sminfa paesana” e “Il tangone”. Sminfa è “voce romanesca, lagna, musica, ballabile volgare” (Panzini); anche, per metonimia, “orchestrina che suona musica dozzinale, ballabili di moda” (Battaglia); infine, “ragazzina vivace e maliziosa” (Id.). I vari sensi confluiscono nel brano, che per un verso mima (da una prospettiva colta) certa musica popolare e volgarotta, per un altro pare riferirsi alle fanciulle in fiore che con i loro ancheggiamenti attizzano i desideri dei virtuali cacciatori di donne che percorrono in lungo e in largo il paese. Mandolini e mandole strimpellano sulla ritmica ripetitiva creata da una sorta di metronomo: un martellare sempre uguale, ossessivo, che approda alla noia e alla stasi, moto che si riavvolge, gatto che si morde la coda. “Il tangone” è – appunto - un tango dai risvolti grotteschi con mandolini, sberleffi fischiati, percussioni piatte che risentiremo in futuro, nacchere, momenti di fracasso circense, un similfischio e l’aggiunta della tromba impastata di Gastone Parigi (16). Un bric-à-brac surreale, un teatro dell’assurdo composto da sonorità stravaganti ora svogliate ora sopra le righe (i mandolini martellano, la tromba smorza in un’estenuazione enfiata), specchio di un fantastico quotidiano dove tutto è allucinazione e delirio d’immobilità. Siamo, per capirci, nell’anticamera di Indagine (dove si avranno una ricerca di organico e timbrica e cromatica più avanzata e con un sovradosaggio di impalpabile insinuante angoscia), ai prodromi di uno tra i più persistenti fantasmi morriconiani. Un’altra cifra stilistica che si preannuncia è quella che chiameremo “poetica della rarefazione”: il suono che si assottiglia, l’orchestra che si sgonfia e riduce ad astrazione sonora, l’organico ridotto. Al di là del gioco dei rimandi, un po’ facile riflesso condizionato, apprezziamo una score che si presentava all’epoca assai originale e superiore alla media; ascoltata oggi, mantiene intero il suo appeal. Soprattutto, rinvia ad un mondo di suoni già ben morriconiani, e carichi d’una freschezza che è prerogativa delle fasi iniziali. I capolavori verranno, ma nella “preistoria” è un fascino estetico e timbrico inossidabile ed irripetibile. Dopo, tutto sarà più scintillante ed ornato. Ma quegli inizi vanno tenuti in conto: ampliavano (e ancora espandono, oggi forse più di allora) le collaudate pigre abitudini d’ascolto, innervavano le note d’una bellezza nuova: capivi che una musica “diversa” era possibile.
La vicenda editoriale de I basilischi è articolata e vivace. Già in contemporanea al film la RCA pubblicò un singolo con i brani “Canzone basilisca” (in seguito: “Cantata”) e “Ora incantata”, e un altro con “Il tangone” (“Stessa spiaggia stesso mare” sul lato B) (17), i quali ricompariranno in varie compilation dei Novanta ed anche in un compact della serie CIAK (18). Il resto rimase inedito sino al 1994, quando sempre la RCA fece uscire cinque tracce in un trittico includente I pugni in tasca e Gente di rispetto (19). Infine, vent’anni dopo, l’edizione completa GDM (300 copie) con l’aggiunta del brano “Ora incantata”, abbinata a Prima della rivoluzione (peraltro già pubblicato) (20). (Qui si ripropone la bella copertina del 45 giri del ’63: sfondo rossiccio in alto, colline grigie più sotto, tre figure riprese di spalle sedute su di un belvedere, giovani sognatori di un’estrema provincia levantina). Un percorso che la dice lunga sugli itinerari della musica del cinema, patrimonio che vede la luce per addizioni successive.
Morricone considerava I basilischi il suo primo film d’autore (21), al quale si aggiunge l’anno successivo Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci, “film di alto lignaggio” (22). Se il cinema commerciale continua a corteggiarlo e registi e produttori fanno a gara per averlo (i vari Caiano, Fulci, Fizzarotti, Indovina, Salce, Tessari: ormai, dopo il successo dei western leoniani, il suo nome è pienamente spendibile nei titoli di testa, nelle locandine, nei flani, al punto da comparire anche solo in veste di “supervisore” come in Quien Sabe?, o di essere inserito artatamente come in Per pochi dollari ancora dove, accanto al commento originale di Gianni Ferrio, fu aggiunto un brano morriconiano scritto per tutt’altro film) (23), anche gli “autori” (convenzionalità del linguaggio) si accorgono di lui, Bertolucci nel ’64, Bellocchio l’anno dopo, Pasolini nel ’66, e tutti gli altri a venire. L’incontro con il regista parmense aprì la via ad una collaborazione proseguita per cinque film sia pure con interruzioni, che vede l’apice in Novecento e si chiude con La tragedia di un uomo ridicolo (24). Si racconta la crisi ideologica ed esistenziale di Fabrizio in una Parma raffigurata nel patinato estetizzante bianco e nero di Aldo Scavarda e Vittorio Storaro (ancora assistente). Borghese e fidanzato con Clelia, rampolla ella pure della buona borghesia, non si riconosce più, lui militante nel P.C.I., nella classe sociale di appartenenza e per prima cosa rompe con la ragazza e vive una parentesi sentimentale con Gina, la giovanissima zia in odore di depressione (Fabrizio, Gina: i richiami stendhaliani sono evidenti). Dopo il suicidio di un amico e una fase di grande confusione di idee e stati d’animo, il ritorno nei ranghi con tanto di matrimonio con la ritrovata Clelia e conseguente accettazione di un sistema di valori che pare non scalfibile. Può essere sconfitta, resa; o nostalgia di una “dolcezza del vivere” rassicurante e protettiva: la citazione attribuita a Talleyrand in esergo appare ambigua (“Chi non ha vissuto gli anni prima della rivoluzione non può capire che cosa sia la dolcezza del vivere”), forse ironica forse no: di certo, “Fabrizio è rimasto «prima della rivoluzione»” (Mereghetti). Che dovrebbe essere quella sessantottina di quattr’anni posteriore e i cui sulfurei furori saranno anticipati l’anno successivo da I pugni in tasca di Bellocchio (Morricone anche lì, con una score molto più “cattiva”). Opera seconda del regista allora ventitreenne (aveva esordito nel 1961 con La commare secca, musica di Piero Piccioni), il film è girato con sofisticata preziosità che conquista l’occhio e ruba la scena all’assunto ideologico, che oggi appare un poco datato (tuttavia il racconto funziona ancora come diario di una crisi che investe la totalità dell’individuo). Si è parlato di nouvelle vague italiana, di certo è un cinema che parla (anche) di se stesso, molti i dialoghi cinefili con elogi di Godard (appunto), Hitchcock, Rossellini. Fabrizio è interpretato da Francesco Barilli, un poco rigido (si rifarà come regista con i due capolavori Il profumo della signora in nero e Pensione paura: cinema che procedeva in tutt’altra direzione), Adriana Asti è la zia bella e comprensiva, l’unica che capisce davvero i tormenti del nipote (ed è magnifica nella scena affettiva con lui, di sopraffino candore, esaltata dal sottofondo di “Vivere ancora” di Gino Paoli), il critico Morando Morandini dà vita a Cesare, intellettuale senza patemi, Cristine Pariset è la fidanzata; compare anche Gianni Amico, collaboratore alla sceneggiatura col regista.
La musica è molta e varia, una satura lanx con Paoli, Morricone, Gato Barbieri (“Walking With G. A.” e “Invention for Gina”), l’”Inno dei lavoratori” di Filippo Turati e Amintore Galli, la canzone “Avevo 15 anni” di Ennio Ferrari, brani dal Macbeth di Giuseppe Verdi. Nei titoli di testa è attribuita ex aequo a Gino Paoli e a Morricone. Nessun lume ci giunge dal compositore, che nell’autobiografia si limita a ricordare il film e passa oltre. Un poco di luce arriva dal regista: “Andavo alla RCA […], dove Gino Paoli stava incidendo le musiche per Prima della rivoluzione ed è lì che Gino mi presentò «il suo arrangiatore». Era un musicista giovane giovane […], si chiamava Ennio Morricone. Paoli aveva scritto due canzoni per il film, “Ricordati” e “Vivere ancora”, e poi la melodia per il commento sonoro del film. Durante la registrazione mi resi conto di quanto il contributo di Morricone fosse fondamentale per la creazione di quel corpo sinfonico, tessuto connettivo tra le due canzoni” (25). Dunque, par di capire, il Nostro non avrebbe composto neppure una nota, si sarebbe limitato a dare veste sinfonica al preesistente di Paoli. Eppure, basta ascoltare per rendersi conto che l’operazione è molto più complessa e sofisticata. Intanto, Morricone ci ha messo del proprio, alcune note sono di suo pugno. Ci riferiamo a “Tu vedrai” e “Sognare o non sognare”: contengono un frammento della musica del futuro El Greco (1966, Luciano Salce), esattamente il brano “Discesa” (26). Ma la sua mano si avverte ovunque, è la perizia d’orchestratore di un novello re Mida che trasforma in oro tutto ciò che tocca (così sarà in futuro quando gli verrà chiesto di porre mano alla musica di altri: “Ma l’amore no”, “Amapola”, le “interpretazioni” di C. A. Bixio in Divina creatura; etc.).
Il Maestro lavora di fino soprattutto con gli archi nella ricerca di un classicismo personalizzato, un poco calligrafico ma anche moderatamente “espressivo”. Non mancano altre presenze strumentali risolte in dialoghi splendidi tra flauto e clavicembalo (“Vivere o non vivere”), clavicembalo e orchestra (“Tu vedrai”), flauto e chitarra classica (“Sognare o non sognare”, all’insegna di un incantato, positivo onirismo), chitarra ed archi (“Prima della rivoluzione”, e come poi avverrà in Metello) o al contrario solitarie (i giochi barocchi del clavicembalo in “Tu vedrai”, il flauto che apre “E dopo?”, di seguito sommerso da un ovattato tappeto d’archi). In tutto cinque momenti, sui quali svettano i quasi otto minuti di “E tu vedrai”, medley ove l’autore mescola musica propria, spunti bachiani, melodie di Paoli, momenti giocosi e solennità meditativa in una suite orchestrale compatta.
Prima della rivoluzione costituisce un evento unico entro la vasta filmografia morriconiana, una “combinazione complessa”. Non tutta la musica fu scritta da lui, tuttavia il lavoro di rielaborazione autorizza a considerarlo co-autore a tutti gli effetti (27). Una musica (egregiamente diretta da Franco Ferrara) che mantiene l’impronta elegante del film e insieme vi contribuisce: suoni puliti, organico quasi da accademia con predominio dell’orchestra d’archi, frasi melodiche improntate ad un neoclassicismo appena tinto da una sensibilità “romantica”: i tormenti di Fabrizio sfumano in arabeschi sognanti, armonie delicate. Musica da ascoltare con calma, poco adatta a chi ama le sensazioni forti, le sonorità inconsuete, le trovate a effetto. E’ un altro Morricone questo, ennesimo risvolto di un compositore che ha esplorato l’arte dei suoni con un’ampiezza di orizzonti rara.
(1) Cfr. il Catalogo ragionato delle opere in SERGIO MICELI, Morricone, la musica, il cinema, nuova edizione a cura di Maurizio Corbella, Milano, RICORDI-LIM, 2021, pp. 478-483. Morricone indica in “Mattino per pianoforte e voce” del 1946 il suo “primo brano compiuto in assoluto” (ENNIO MORRICONE – ALESSANDRO DE ROSA, Inseguendo quel suono. La mia musica, la mia vita. Conversazioni con Alessandro De Rosa, Milano, Mondadori, 2016, p. 38), ovviamente estravagante.
(2) MICELI, p. 221.
(3) Sulla questione, nebulosa e forse oziosa, generatrice di “una casistica davvero caotica”, affascinante comunque, di supposti precedenti lavori, Ivi, pp. 111-113. Di certo, “quello al grande schermo fu un approdo graduale, dopo anni divisi fra radio, televisione e discografia, lavorando come aiutante di molti compositori noti in quel periodo”. E, “[…] quando Salce mi chiese di musicare il suo nuovo film, avevo già scritto così tanta musica per il cinema firmata da altri…” (MORRICONE-DE ROSA, p. 33).
(4) A mo’ d’esempio, si legga il reportage del concerto “Una serata con Ennio Morricone” dell’Orchestra Sinfonica di Milano del 29 giugno 2023, di Massimo Privitera il quale, di fronte a certe libertà del direttore e degli esecutori – legittime non meno che improvvide -, pone il dilemma, meno impegnativo di quello shakespeariano ma fondamentale qui, “Essere o non essere Ennio”: https://www.colonnesonore.net/contenuti-speciali/reportage/9155-reportage-del-concerto-una-serata-con-ennio-morricone.html (ultimo accesso: settembre 2023).
(5) La bibliografia completa o quasi è reperibile nel sito, amatoriale ma affidabile, https://chimai.miraheze.org/wiki/Bibliography (ultimo accesso: settembre 2023).
(6) ENNIO MORRICONE, Il federale, edizione estesa Digitmovies CDDM048, 2006.
(7) “[…] una marcia militare di carattere parodistico, effetto ottenuto grazie alla non sempre perfetta coincidenza tra gli accenti della melodia che danza sul rullante militaresco e quelli del ritmo principale degli altri strumenti. In particolare feci eseguire a una tuba un Si bemolle grave, sincopato, che funge quasi da pedale estraneo alla tonalità principale e che così piazzato fa sorridere perché sembra quasi un errore” (MORRICONE – DE ROSA, p. 38): cfr. “Titoli” e variazioni nell’edizione citata.
(8) “La dissonanza che si viene a creare […] mi ricorda vagamente una certa ricerca che avevo già iniziato molti anni prima, quando scrissi “Mattino per pianoforte e voce” "(Ibidem).
(9) Fra gli altri, “Combattimento”, “Manovre grottesche”, “Tema dell’auto anfibia”, “Pullman in avaria”, “Fine del viaggio” (edizione citata).
(10) ENNIO MORRICONE, Il successo, GDM Music ESCGDM 4012 (2007); ID., I due evasi di Sing Sing, Quartet Records QR445 e Sonor Music Editions SME73, 2021.
(11) In realtà, “pseudoinedite” come ha precisato Massimo Privitera, che ricorda come qualche brano fosse stato pubblicato in una promolibrary dei Sessanta e da qualche altra parte in versione non originale: https://www.colonnesonore.net/recensioni/cinema/7568-i-due-evasi-di-sing (ultimo accesso: settembre 2023).
(12) https://www.storieoggi.it/2019/11/27/i-basilischi-quel-film-nato-da-una-visita-casuale-alla-terra-di-suo-padre/ (ultimo accesso: settembre 2023).
(13) MORRICONE-DE ROSA, p. 85.
(14) GINO PAOLI, Basta chiudere gli occhi, RCA Italiana PML 10375; per l’ascolto: https://www.youtube.com/watch?v=f9EdyeYW06s (ultimo accesso: settembre 2023).
(15) Daisy Lumini fischiò anche per Benedetto Ghiglia in La bugiarda di Comencini, e scrisse pure per il film Commando suicida di Camillo Bazzoni (1968).
(16) Trombista di successo, assai richiesto verso la fine dei Cinquanta e nei primi Sessanta, lavorò in molte orchestre di musica leggera e si esibì in locali alla moda come “Il Covo di Nord Est”. Morricone lo richiese anche per il brano “La mia mania” composto per I maniaci di Lucio Fulci.
(17) RCA Italiana PM45-3219; RCA italiana PM45-3218: dove compaiono le dizioni, allora in voga, “Ennio Morricone e la sua orchestra” e, per “Stessa spiaggia stesso mare”, “Ennio Morricone e il suo complesso” [sic].
(18) “Lina Wertmüller – I grandi del cinema italiano”, Cinevox CIA 5081, 1991. Per l’elenco completo: https://chimai.miraheze.org/wiki/Movie_I_Basilischi (ultimo accesso: settembre 2023.
(19) ENNIO MORRICONE, I pugni in tasca/I basilischi/Gente di rispetto, RCA OST 126.
(20) ENNIO MORRICONE, Requiem per un destino/Prima della rivoluzione, RCA Records OST 136, 1997.
(21) MORRICONE-DE ROSA, p. 85.
(22) MICELI, p. 221.
(23) Si tratta di “Penso a te” da I malamondo di Paolo Cavara (1964).
(24) “Esiste il ricordo di come si incomincia a lavorare insieme, ma non quello in cui si smette. Non esiste il ricordo di come smetti” (BERNARDO BERTOLUCCI, “Esistono vari Ennio Morricone”, in MORRICONE-DE ROSA, pp. 423-426: 425).
(25) MORRICONE-DE ROSA, p. 423.
(26) ENNIO MORRICONE, El Greco, GDM Club 7046, edizione estesa 2007.
(27) MICELI, p. 527.