Che hai fatto in tutti questi anni
Piero Negri Scaglione
Che hai fatto in tutti questi anni (2021)
Torino, Einaudi
pp. 238
€ 20,00
Il tempo […] è un’illusione. La non differenza e non separabilità tra un momento del suo apparente ieri e un altro del suo apparente oggi, bastano per disintegrarlo (Jorge Luis Borges, Storia dell’eternità, 1936)
Gianni Canova nella sua antologia personale dei «cento film che sconvolsero il mondo» (24 ORE Cultura srl, Milano, 2021) include C’era una volta in America (noi avremmo rincarato con Il buono, il brutto, il cattivo e C’era una volta il West; ma scegliere – si sa - è sinonimo di rifiutare). E ben a ragione, dandosi il capolavoro di Sergio Leone come obbligata pietra d’inciampo per cinefili e non: come non puoi fare a meno di «inciampare» in determinati libri e composizioni musicali e figurative, così non puoi eludere il confronto con taluni titoli cinematografici capaci di formare e trasformare, di cambiarci in profondità sconvolgendoci. Il terzo capitolo della leoniana trilogia del tempo – susseguente a quella del dollaro - è un monolite solitario e tempestoso, vetta che svetta sovra tante e pur imponenti guglie. Ed anche il testamento del regista romano, che non poté realizzare il successivo mastodontico progetto di Leningrado, opera che dobbiamo accontentarci di immaginare; né altri pregressi rimasti nel limbo del virtuale ipotetico: dall’autobiografico Viale Glorioso a Vado, l’ammazzo e torno, storia di Gaetano Bresci; da Don Chisciotte a Cent’anni di solitudine, pensato quest’ultimo per la tv in dieci puntate; da Viaggio al termine della notte a La vera storia della monaca di Monza sulla base degli atti del processo a Virginia Maria de Leyva; ed anche un remake di Gone with the Wind, idea abbandonata alla notizia che gli americani volevano ricavarne un serial televisivo, come di fatto accadrà nel 1994. Ma, “Perché realizzare un’opera, quando è così bello sognarla soltanto?”: se lo chiedeva Pasolini interpretando un allievo di Giotto nel Decameron.
Opera anomala, film monstre già nella lunga travagliata realizzazione, presentato a Cannes nel 1984; patente di nobiltà per un regista sino ad allora snobbato dalla critica accademica; caso clinico da studiare. Ha stimolato riflessioni, proposte interpretative e indagini collaterali che han preso forma di libro, di saggio, di «discorso lungo» che eccede la concisione dell’intervento finalizzato ed estemporaneo. Diego Gabutti e Ilaria Fiesole sono autori di due studi specifici (C’era una volta in America. Un’avventura al saloon con Sergio Leone, Milieu 2015, recensito da Massimo Privitera); Ilaria Fiesole, C’era una volta in America di Sergio Leone, Gremese 2018). Né son da trascurare le belle pagine dedicate da Marcello Garofalo nella sua monografia (Il cinema è mito. Vita e film di Sergio Leone, Minimum Fax, 2020) e da Oreste De Fornari nel suo Tutti i film di Sergio Leone (Milano, Ubulibri, 1984). Giunge ora, buon ultimo, lo studio di Piero Negri Scaglione. Non monografia e neppure dichiarata proposta interpretativa – per quanto non manchino suggestioni ermeneutiche sparse con nonchalance -; piuttosto, la ricostruzione puntuale dei diciotto anni intercorsi tra la prima idea (1966) e l’uscita del film. Partiamo dal titolo, che è insieme il libro e il film. Ricordate? Dopo mezz’ora circa di pellicola - complesso prologo, ancor più dilatato dei precedenti, in perfetto stile Leone, maestro di epica (l’epos è lento, ambisce alla totalità) - in cui abbiamo assistito alla caccia all’uomo Noodles da parte di quattro gangster che uccidono una donna che non vuole rivelarne il nascondiglio, pestano a sangue Fat Moe che vuota il sacco (Noodles è al teatro cinese), si intrudono nel locale; Noodles ne elimina uno, sfugge agli altri, giunge a una stazione ferroviaria e acquista un biglietto per una destinazione qualsiasi; dopo quella densa mezz’ora, l’uomo (intanto siamo saltati dai primi anni Trenta al 1968) si reca dal vecchio Fat Moe che ancora gestisce l’omonimo locale, gli mostra una lettera anonima che ha appena ricevuto: qualcuno ha scoperto la località dove era rimasto nascosto per più di trent’anni. Poi, la fatidica domanda Che hai fatto in tutti questi anni e la laconica risposta Sono andato a letto presto. E’ la citazione dall’incipit della Recherche (“Longtemps, je me suis couché de bonne heure”) come ricorda Enrico Medioli, e come ogni buon lettore aveva compreso per conto proprio. Il rimando non è un vezzo estetizzante, piuttosto la chiave (una delle chiavi) di un racconto del quale lo scrittore francese è silente nume tutelare: una narrazione filmica scandita da ardite intermittenze del tempo e del cuore che fanno saltare la diacronia a favore di una sincronia ove tout se tient in un presente eterno. Il senso però è diverso rispetto alla Recherche. Là, l’affermazione preludeva all’excursus su sonni e risvegli antichi e recenti, sulle camere ove il narratore aveva dormito. Nel racconto filmico, il coricarsi presto è segno di sconfitta, di resa da parte di chi tutto ha perduto, denaro donna, sogni, se non la memoria (“attenti, il sistema alla lunga vince e si rischia di andare a letto presto per il resto della vita”, chiosa Scaglione, p. 6).
Che cosa hai fatto in tutti questi anni. Gli anni sono quelli di Noodles dal 1933 al 1968, sette lustri dei quali niente sarà rivelato, trascorsi nel buco del culo del mondo; sottile ponte fra una tranche-de-vie dalla prima adolescenza alla gioventù, e un oggi che a quell’ieri riporta (qualcuno sa chi è’, dov’è stato, e forse vuole qualche cosa da lui). Ma sono, anche, i diciotto anni occorsi a Leone per portare a termine il suo film. Non sappiamo che cosa abbia fatto Noodles in tutti quegli anni; conosciamo nel dettaglio ciò che fece Leone nei circa venti occorsigli per creare la sua immane opera grazie alla puntuale indagine di Scaglione, autentica “biografia di un film” (p. 224). Sergio Leone e l’avventura di C’era una volta in America, suona il sottotitolo. Il termine “avventura” è persino eufemistico, meglio sarebbe a dire odissea (i rimandi a Omero non spiacevano al regista), come ben si vedrà. In un prologo, sette tempi (1966-1971; 1971-1975; 1975-1976; 1976-1977; 1979-1982; 1981-1983; 1983-2012) e un epilogo scorre un altro film, non tanto parallelo, piuttosto prequel. Una pre-saga. Anzi tante saghe avviticchiate. L’eroe è sempre lui, Sergio Leone, lottatore di razza, infaticabile, inscoraggiabile, pronto ogni volta a ripartire.
La saga dei diritti. Giuseppe Colizzi passa a Leone il romanzo di Harry Grey (vero nome: Herschel Goldberg) The Hoods (Mano armata; alla lettera, “gli incappucciati”), uscito in America nel 1952, pubblicato da noi nel ’58 (Longanesi). E’ il 1966, l’anno di Il buono, il brutto, il cattivo. Il regista ne rimane “ossessionato”, scatta subito il proposito di prenderlo come base di un racconto per immagini. Incontra più volte l’autore, un ex gangster, dal quale appura che i diritti cinematografici dell’opera appartengono al regista e produttore Dan Curtis che non intende cederli perché vuole ricavarne un film lui stesso. Ci si trascina fino al 1975, quando l’avvocato Alberto Grimaldi (quello della PEA) acquista i diritti e si offre come produttore. Qui comincia l’epopea dei produttori. Grimaldi si ritira perché non sopporta la sequenza dello stupro a Deborah da parte di Noodles, e alla quale Leone non intende rinunciare. Si fanno i nomi di Cristaldi, di Lombardo, della Gaumont, però il film costa troppo. Infine, l’israeliano Arnon Milchan. Il pellegrinaggio degli sceneggiatori. Nel 1972 Leone aveva contattato Leonardo Sciascia che, dopo un abbozzo di stesura, si tirò indietro con un “Grazie, non mi interessa”. Il regista pensa allora a Sonego (forse), a Luigi Magni, a Ernesto Gastaldi che elabora un trattamento in parecchi punti differente da quello definitivo (una Rolls Royce inabissata nelle acque del porto di New York e un cadavere incatenato al posto di guida; un lunghissimo flashback a raccontare Noodles e Max fino alla rapina andata storta; Noodles se ne sta nascosto per anni, sino a che l’Organizzazione lo stana e gli affida un nuovo incarico – che ovviamente non potrà rifiutare -: deve tornare a New York per far fuori un senatore; esegue, poi si butta con l’auto nell’Hudson, l’inizio e la fine si saldano. Fascinoso. Variante in cerca d’autore. C’era una volta in America 2? Ma chi? Si intravvede qualche clone, in giro?). Nel mentre, Leone pensa a sceneggiatori americani che “riscrivano” il copione italiano: John Milius, Milos Forman, infine Norman Mailer proposto da Grimaldi prima della defezione. Mailer scrive, Leone non approva, c’è un contratto da onorare e si procede per avvocati, il regista dovrà comunque pagare. Si arriva in fine al sestetto Benvenuti-De Bernardi-Medioli-Arcalli-Ferrini-Leone. Per la sceneggiatura in lingua inglese e i dialoghi viene scelto (dopo altri diciotto) Stuart Kaminski (nei titoli italiani è indicato come autore dei “dialoghi aggiunti”). La lotteria a Babilonia degli attori. Nei primi Settanta il regista aveva pensato a Henry Fonda, Jason Robards, Charles Bronson (la memoria di C’era una volta il West è vicina), Gabriele Ferzetti, Ugo Tognazzi (ma in quale ruolo?), Romolo Valli: nomi collaudati e usati sicuri. Per le figure femminili, papabili erano Julie Christie, Glenda Jackson, Carla Gravina. Il cast muterà completamente (per la cronaca, De Niro in principio rifiutò). Il calvario dei tagli. La durata prevista di quattro ore (si era pensato inizialmente ad un’uscita in due parti – come per Novecento di Bertolucci -, la prima a Cannes, la seconda a Venezia) non piace agli americani, che non vogliono eccedere le 2 ore e 45 minuti (si giungerà ad un compromesso: 3 ore e 49 minuti). Un test screening del 17 febbraio 1984, a Boston, è un disastro: “una larga parte del pubblico se ne va prima della fine, un fatto inaudito. Claudio Mancini [produttore esecutivo] c’è, e legge i questionari riconsegnati da chi è rimasto: c’è chi scrive che non può stare quasi quattro ore senza fumare, chi si lamenta perché a fine film i mezzi pubblici non girano più, chi dice che il film è confuso o eccessivamente violento” (p. 195). Alla richiesta di ulteriori tagli (il film era già stato mutilato di sei sequenze importanti, che saranno ripristinate nella versione restaurata del 2012, presentata a Cannes): “Tagli non ne faccio, fate in modo che gli americani vadano a cena prima o dopo la proiezione”. Pensano allora, gli americani, di rimontare il film in ordine cronologico. Leone disconosce, il risultato è un flop; riproposto nel montaggio originale, andrà molto meglio: gli spettatori sono meno idioti di quanto si presume: intreccio insomma, non fabula.
Quanto riferito è la punta dell’iceberg. Scaglione ha compiuto un lavoro minuzioso di ricerca, ha raccolto centinaia di testimonianze di vivi e morti (mogli, figli, amici) che conferiscono alla sua cronaca il sapore del vissuto. Molte le curiosità. Per il ruolo di Carol fu presa in considerazione anche Romina Power e tutto filò liscio; al secondo incontro si presentò col marito Al Bano, perse credibilità e fu scartata. Deborah in origine era Dolores, come nel romanzo: fu cambiato il nome perché Deborah suonava più ebraico e più biblico. Le altre le scoprirà il lettore, e stupirà. Anche nei riferimenti agli altri film di Leone non si lesinano sorprese. Giù la testa doveva intitolarsi Messico, per gli interpreti si pensava a Tomas Milian e a Corin Redgrave (fratello di Vanessa), per la regia a Tonino Valerii. Sembra che in origine Gianni Garko dovesse ricoprire il ruolo dello Straniero in Per un pugno di dollari, “e ha detto di no: almeno così sostiene Leone, Garko dice invece che è lui, Leone, che l’ha scartato” come ricorda Steve Della Casa citato alla p. 184. E’ il mondo del possibile, della virtualità illimitata. Il libro dischiude e richiude una pluralità di universi filmici paralleli: un viaggio da fantascienza dentro un cinema tutto da immaginare, pensato e rimasto alle soglie. Tornando ai fatti, si chiarisce lo slittamento del titolo da C’era una volta l’America a C’era una volta in America: si voleva evitare la confusione con un documentario omonimo uscito nel frattempo. E fu un acquisto. Il titolo è l’opera, e fa opera a sé. La preposizione in luogo dell’articolo determinativo introduce al Mito. Finita non è l’America; il c’era una volta è quella America insieme storia e leggenda che letteratura e tanto cinema consegnarono alla nostalgia di un’Europa che aveva vissuto altre epopee – e assai di più - ma non quella, trasmessa al suo immaginario dalla settima arte che celebrava le mitologie del nuovo mondo e le consegnava al vecchio, del quale era figlia. In America ci fu spazio per i Noodles, i Max, i Fat Moe e Deborah e tutti gli altri, icone del proprio tempo che Leone ha trasformato in archetipi, campioni d’umanità sconfitta e referenti del cinema che fu. Il regista spese gli ultimi vent’anni di vita per condurre a termine la propria Recherche e ritrovare il tempo della favola: c’era una volta, in un paese lontano lontano…
Le dichiarazioni di sodali e collaboratori costituiscono un capitolo a sé, e dei più intriganti. Gabriella Pescucci (“[…] poco alla volta scoprii il suo senso della bellezza, ne ho incontrati pochi di registi come lui. […] era anche un grande businessman […]. Ma era soprattutto un esteta”: p. 156). Tonino Delli Colli (“dovevamo differenziare le tre epoche. Per questo, gli anni Venti sono marroncini, un po’ come le foto d’allora; il 1930 vive di tonalità bianche e nere metalliche, sull’esempio dei film gangsteristici, mentre il 1968 non presenta effetti particolari sebbene rimanga abbastanza freddo e neutro”: p. 157). Enrico Medioli, il coltissimo letteratissimo sceneggiatore prediletto da Visconti e Bolognini (“Io C’era una volta in America l’ho molto approvato, già vedendo i giornalieri. Che potesse diventare una pietra miliare del cinema noi sceneggiatori non ce ne rendevamo conto, forse neanche Leone. Ma quello che gli dicevamo sempre, mentre lo scrivevamo, è che era la più bella sceneggiatura di tutti i suoi film. E lui rispondeva: è vero. E’ stato appassionante scriverlo […] è stato un lavoro massacrante. Ci sono film assassini, secondo me Sergio è morto di C’era una volta in America. Sei mesi a Cinecittà a 40 gradi, in Canada ce n’erano 30 sotto zero. Ci sono film che costano la vita al regista. Anche Visconti si è ammalato fatalmente di Ludwig. Visconti è morto di Ludwig, Leone di C’era una volta in America”: pp. 85-87). Ernesto Gastaldi (“La morte di Sergio è stata come una pietra tombale, lui era l’unico che poteva fare qualunque cosa, poteva fare grossi film e sono i grossi film che creano genere. Morto lui, è morto il cinema commerciale italiano. E’ finito un mondo. Da allora il cinema vero, quello grandioso, non c’è più stato. C’è stato qualche bel film, ma non il cinema italiano”: p. 214. Qui ci sarebbe da aprire un dibattito che ci porterebbe troppo lontano, alla prossima. Solo vogliamo puntualizzare: a) “cinema commerciale” andrà inteso nell’accezione positiva di un cinema «per tutti», dal cinefilo incallito e smaliziato allo spettatore di minori pretese alla ricerca di «belle storie» e ben dirette: Leone insomma, ma anche tanti altri che, pur imparagonabili al Maestro, fecero della nostra cinematografia un barocco labirinto di meraviglie entro il quale noi, come tante Alice, ci smarrimmo con letizia senza sapere, e senza volere, trovar l’uscita; b) anche in questo caso senza voler istituire confronti antipatici, salviamo Giuseppe Tornatore, l’unico nostro regista che ancora pensa in grande e che nel suo cinema non manca di omaggiare Fellini e Leone). Claudio Mancini (“Era un visionario. Però nessuno capisce quanto era bravo davvero. Per esempio, nessuno parla mai della sua genialità in postproduzione. Al montaggio era in grado di rivoltare un film, di cambiarlo completamente. Aveva un orecchio speciale per i rumori, per i missaggi. Oggi con dodici turni fanno un film, con Sergio andavi avanti mesi e facevi spesso le due di notte […]. Con Sergio si ricorda la musica, no? Se in un film ci sono 50 M, cioè pezzi musicali, con Sergio ce ne sono trecento. E tutti i dialoghi sono scanditi sulla musica. Quando portavo un copione a Sergio, lui diceva sempre: troppi dialoghi. Con Sergio parlano poco gli attori. E’ tutto nell’altra colonna. Lo vestiva il film, capito?”: pp. 76-77). Elizabeth McGovern (“Sentivo un peso insopportabile, ero molto sola. Sapevo che mi aveva voluta Leone e che De Niro non era d’accordo”: p. 166). Scott Schutzman, Noodles giovane (“E’ un film impossibile da definire. Parla di gangster, ma nessuno sarebbe così pazzo da considerarlo un gangster movie. E’ un film esoterico, ambiguo e inafferrabile come la vita […]. E’ un film così italiano, così europeo […] comunque gli americani non avrebbero potuto mai capirlo fino in fondo. Non parla di New York, parla dell’idea di New York, del mito di New York visto da un italiano. Ed è un sogno, un film completamente avvolto nelle nebbie e nel fumo […]. E’ un film che appartiene al cento per cento al suo regista, è lui che l’ha visto, immaginato, realizzato. E’ un sogno, ed è il sogno di Sergio Leone” (p. 141). E tanti altri, che il lettore scoprirà da sé. Ennio Morricone naturalmente (v. oltre). E l’artefice. Non potendo di lui riportare tutto, abbiamo scelto – non senza fatica - una dichiarazione intensa ed illuminante, tratta da un articolo inviato dal regista al “Corriere della Sera” il 19 maggio 1984, alla vigilia della prima ufficiale:
Dico a tutti che si tratta del mio film migliore, probabilmente è così e di sicuro lo penso davvero, ma quel che voglio precisamente dire, con questo, è che C’era una volta in America sono io. E’ un film che potevo dirigere soltanto con i capelli grigi e qualche ruga intorno agli occhi. I miei film precedenti erano il mondo giudicato dai bambini, storie che raccontavano la giovinezza dell’America, quindi le prime ombre del suo crepuscolo. Questo è un giudizio sul mondo dei bambini, invece, su Hollywood e su me stesso: un film tessuto di ricordi, autunnale, girato nella notte del cinema. (p. 200)
C’era una volta in America sono io. Rispunta la ben nota dichiarazione attribuita a Flaubert per quanto non verificabile, comparsa in una biografia del 1909: il biografo riferisce una fonte di terzo o quarto grado, non nominata; qui invece la fonte è Leone stesso, che nel film si è raccontato tramite una complessa messa in scena (“C’era una volta in America è un’autobiografia a due livelli. Ci sono la mia vita personale e la mia vita di spettatore di film americani”: p. 21, senza indicazione di provenienza).
Si esce dal libro con un sentore di eternità, una vita intera che si dilata, la voglia di non terminare, come ricordò De Niro nel 2012, a Cannes, quando fu presentata la versione estesa con le sei sequenze ripristinate: “Sergio non voleva finirlo il film, sarebbe andato avanti ancora, forse per sempre” (p. 208). Se Borges fosse oggi vivo, potrebbe – dovrebbe - integrare la sua Storia dell’eternità – da lui definita, da par suo, “uno splendido artificio che ci libera, seppure fugacemente, dall’intollerabile oppressione del successivo” - e aggiungervi in coda a Plotino, a Platone, a Sant’Agostino, a Ireneo, a Boezio, a Giovanni Scoto Eriugena, a Nietzsche, alle Mille e una notte e relativi traduttori, anche C’era una volta in America: per la circolarità del Tempo che sottende un “eterno ritorno” non meno che per la diuturna preparazione a prefigurare un indefinito/infinito – eterno - slancio verso un termine che si sposta con te: ennesima variante del paradosso di Achille e della tartaruga.
La musica. Se ne parla, e a buon diritto. Perché nel cinema di Leone è elemento e non complemento. Non accessorio, rifinitura; invece sostanza narrativa, attore coprotagonista, condizione necessaria del progetto-film, che diviene film-opera. I suoi film sono impregnati di musica, e non pesa essa musica come in altre troppe occasioni (anche Morricone ne fece le spese con La piovra, ove la score venne montata senza criterio, anzi con un ben definito proposito, quello di riempire i vuoti). Merito del regista demiurgo ed anche, certo, del compositore: artefici di una osmosi con pochi precedenti ed ancora più scarsi seguiti. Disse una volta Morricone che la musica scritta per Leone non è migliore di quella pensata per altri. Se tale pare, il merito va al regista che la valorizza, cioè la inserisce nei momenti giusti – quando serve -; soprattutto, la rende udibile, non la copre con voci e/o rumori. Quei film beneficiano invero di un missaggio accuratissimo, studio attento che garantisce una “colonna sonora” bilanciata, ogni elemento fonico interagisce con gli altri senza per ciò perdere la propria autonomia significante. E la musica si appropria del ruolo di primadonna. Si esce da ogni suo film saturi di immagini e volti e interni/esterni e dialoghi. E musica. Che perdura oltre il fotografico, proprio come la lasciata di certi nobili vini, e ti proietta verso un’illusoria durata.
Morricone è più volte nominato, si ricordano le sue dichiarazioni nei colloqui con Alessandro De Rosa e Giuseppe Tornatore. Eccone una:
“Di alcuni temi che gli avevo fatto sentire era molto contento. Aveva scelto quelli che gli piacevano di più, ma continuava ad avere dei dubbi, dubbi tormentosi. Spesso mi chiamava e più spesso ancora veniva a casa mia: “Fammi sentire un po’ ‘sto tema…”, “Fammi sentire l’altro”, “Fammi sentire quell’altro ancora”. Alla fine i dubbi sparivano, andava via contento. Poi tornava con due sceneggiatori: “Vogliamo far sentire i temi anche a loro?”. A loro piacevano, ma poi ne portava altri, poi portava sua moglie Carla, e a lei piacevano i temi. Insomma non si liberava dei dubbi, ne aveva su tutto, anche su se stesso” (p. 178)
A quelle esitazioni, alle insicurezze permanenti dell’uomo Leone dobbiamo un cinema rivoluzionario e finale, etimologicamente estremo:
[C’era una volta in America è] La fine del mondo. La fine di un genere. La fine del cinema. Per me, è proprio questo. Sperando che non sia davvero la fine. Preferisco pensare sia il preludio all’agonia […]. Sì, è la fine di un genere. Sì, è la fine della sicurezza. Sì, è la fine di un mondo. Ma non è la fine di un sogno. (https://www.linkiesta.it/2018/11/sergio-leone-cera-una-volta-in-america-e-la-fine-del-mondo-la-fine-di/)
Ma che altro dire, che cosa ancora aggiungere sulla score di C’era una volta in America: se non ribadirne l’intensità emotiva frutto non di generica “ispirazione” (vocabolo che il compositore detestava: il genio è dieci per cento ispirazione e novanta per cento sudore, soleva dire citando Emerson) ma di indagine sui suoni e le armonie e le gradazioni, celata dalla naturalezza (apparente: si po dire quella essere vera arte, che non pare essere arte scriveva Baldesar Castiglione nel Cortegiano) del flusso melodico? Musica come “sguardo”, vista interiore, allusione, temporalità, flusso e riflusso, filo che si sdipana e addipana (ogni brano è pensato per confluire negli altri in un perpetuo moto circolare); ed anche, certo, decifrazione dell’immagine, disvelamento – almeno presentimento - dei sottotraccia ed ambiguità ed ellissi che il regista dissemina senza risparmio entro una narrazione complessa, ardua da seguire. Pieno di dubbi l’uomo, carico di dubbi il film. Vicenda reale o allucinazione oppiacea? E il sorriso finale di Noodles/De Niro, che a Scaglione ricorda la Gioconda? E Max, che ne è di lui? Finisce sul serio nel tritarifiuti? Perché Noodles ricusa di ucciderlo, non per vendicarsi ma perché “è il suo modo di vedere le cose”? Perché Noodles stupra Deborah? Ci sono due categorie di cinema, quello confuso e quello ambiguo; nel primo, si capisce poco per incoerenze e buchi di sceneggiatura; nel secondo, la plurivocità è quella dell’esistere, ogni risposta una parziale verità che non esclude le altre. Leone, maestro del non detto/non chiarito, consegna allo spettatore un cinema che richiede tutta la perspicacia dell’homo videns, la sua collaborazione e disponibilità. I suoi film – tutti, non solo l’ultimo - necessitano di continue re-visioni e non svelano il loro mistero. (In Per qualche dollaro in più la donna uccisa dall’Indio era la sorella o la fidanzata del colonnello Mortimer?). La musica, dunque, è esegesi. Si riveda la sequenza di Noodles e Max che si divertono sulla spiaggia di Miami con Carol ed Eve. Leggono sul giornale della fine del proibizionismo, i traffici criminali del gruppo sono a rischio. Per chiudere alla grande, Max enuncia il progetto di una rapina alla munitissima banca di Manhattan (un topos leoniano: in Per qualche dollaro in più l’Indio è ossessionato dalla inespugnabile banca di El Paso, che origina la magistrale sequenza degli osservatori osservati, interpretata da una adrenalinica musica di tensione con ostinati, sirene, martellati del pianoforte, echi lugubri). Noodles gli dà del pazzo, l’altro reagisce con ira. Poi Max si reca, da solo, in riva al mare, contempla l’orizzonte algido e luminoso percorso dai gabbiani, scruta le acque grigioargentate. Nella luce eccessiva, irreale, un biancogrigio accecante, le note del Maestro, quel tema nostalgico, espanso, progressivo che somatizza il sogno della pazzesca impresa, l’ebbrezza del folle volo, la proiezione mitica. E i fraseggi incalzanti, dolorosi (toccata, inseguimento e ritorno) del flauto di Pan di Gheorghe Zamfir prima dell’«inciampo» di Dominic? E l’impennata lirica del tema di Deborah, proprio quando ella abbassa la tendina del vagone in partenza per Hollywood, escludendosi a Noodles giunto in stazione per vederla ancora? E “Amapola” (il brano fu suggerito da Medioli, Morricone ne fece cosa sua), diffusa da un grammofono mentre Deborah ragazzina danza, spiata da Noodles? (Sarà proprio quel pertugio in una parete del Fat Moe a riavvolgere il nastro, a caricare sulle spalle dell’antieroe la croce deliziosa dei ricordi). E, ancora, “Amapola” eseguita da un piccolo complesso orchestrale, soli archi e slancio iperromantico, quando i due ballano e sussurrano nel ristorante sul mare (“Volevi un ristorante sul mare? Fuori stagione sono chiusi, l’ho fatto aprire per te”: è la Sala degli Stucchi dell'Hotel Excelsior al Lido di Venezia). Ci sarebbe poi molto da raccontare sui vari utilizzi del materiale sonoro, sulla transazione tra livelli (interno, esterno, mediato), sull’impiego di pezzi preesistenti (“Amapola” ma anche “Yesterday”, “Summertime”, “God Bless America”, e un brano da “La gazza ladra” di Rossini, taluni in versione originale, altri come “Amapola” e “Yesterday” riorchestrati/interpretati dal compositore). Insomma, per raccontare, analizzare, commentare il testamento di Sergio Leone occorrerebbe una nuova Treccani mirata.
C’era una volta in America è il capolavoro di Ennio Morricone? Nella musica del Maestro romano ci sono vari Everest e K2, parecchi Monte Bianco e Monte Rosa, qualche cima più bassa, nessuna pianura. Dunque preferiamo rispondere in modo evasivo. O elusivo. O forse vile (l’ignavo non sceglie mai, ciò che dopo lo attende già lo sa). E il film, è il migliore di Sergio Leone? D’acchito, in considerazione della densità e molteplicità dei significati, delle smisurate (e realizzate) ambizioni, della struttura complessa e aperta, dell’impatto emotivo e cerebrale, la risposta sarebbe un sì imperioso. Ma poi, ci sentiamo in colpa verso C’era una volta il West, Giù la testa, Il buono, il brutto, il cattivo (se proprio vogliamo considerare i primi due western, e il precedente Colosso di Rodi, “opere minori”: attributo che mal si addice al maiuscolo regista). Di un’opinione siamo però certi, integri da scrupoli e dubbi: C’era una volta in America è il film più importante, il meglio costruito, il più bello ed inarrivabile della storia del cinema di ieri di oggi di domani. Non è un film, magari più riuscito di tanti altri. E’il film. E’ il cinema. Ed anche il metacinema. Possiamo estendere a Leone ciò che Montale disse di Dante: “ha fatto il pieno, per gli altri è rimasta poca benzina”.
Il libro di Scaglione (giornalista de “La Stampa”, esperto di letteratura anglo-americana, già autore di Questioni private. Vita incompiuta di Beppe Fenoglio e Rock! Come comporre una discoteca di base) possiede il dono (non così diffuso) di lasciarsi leggere. Il soggetto è avvincente di suo, l’autore lo spezia con una prosa referenziale – nel senso migliore -, giornalistica – idem - eppure partecipata; niente pose da fan, niente iperboli retoriche e ammirazione naive. Fatti, tanti fatti. E testimonianze dirette. La prima persona non è bandita (“Quando esce il film, io ho 18 anni. Quando Leone comincia a pensarlo, sono appena nato”: p. 8; “Non sono capace di scrivere un libro se non investendoci molto di me, molto a lungo”: p. 224; etc.), una garbata patina autobiografica tiene alla larga il sussiego accademico. Talora emerge un’allure da indagine poliziesca, ed anche da ricerca d’archivio. Tutte le fonti sono state prese in considerazione: orali, scritte, digitali (social compresi). L’affresco si delinea via via, si implementa di figure, paesaggi, tinte e mezzetinte. Appresso il termine, un elenco di libri letti e consultati: una piccola “biblioteca del cinema”, e non solo, che ci inizia al genere della “letteratura cinematografica” (nona arte, azzardiamo): “il libro che racconta la genesi di un film sta diventando un genere”, puntualizza Scaglione (p. 250) dopo un accattivante elenco (al quale ci piace aggiungere Witness. Il cinema al banco dei testimoni di Umberto Berlenghini (Porto Seguro editore, 2021), un dietro le quinte di sessanta film da L’assassino di Petri (1961) a Sulla mia pelle di Alessio Cremonini (2018), con prefazione dell’intenditore Marco Giusti). (Co)esistono un prima, un durante, un dopo; la gestazione, la visione, la re-visione ovvero il lavoro compiuto dalla mente impressa dalle stimmate delle immagini che si affollano nella memoria, la aggrediscono, la vellicano, non la mollano. Corredano il volume sette fotografie in bianco e nero, poeticissime, “punto di vista sul film e dietro il film” (p. 237); spicca lo stilnovismo della prova costume di Jennifer Connelly (Deborah ragazza). Tutte di Angelo Novi, fotografo di scena dei film di Sergio Leone a far data da Il buono, il brutto, il cattivo, facenti parte delle 14500 (Leone, o della dismisura) scattate sul set di C’era una volta in America.
Usciamo dalle pagine saturi di novella cultura cinematografica, sazi ma non satolli. Ogni volta che un bel libro finisce, è una favola conclusa. Non resta che tornare al principio, all’iniziale c’era una volta. La favola di Sergio Leone continua, anche grazie a libri come questo.
Uniche riserve, non di contenuto bensì di metodo, l’assenza di un indice dei nomi, formidabile facilitatore delle ricerche: anche lo schedatore più accurato è obbligato ad omettere, pena la scrittura di un libro parallelo, e puoi accorgerti – dopo - di avere trascurato dati importanti su x, y. Inoltre, non sempre vengono indicati i riferimenti bibliografici delle citazioni: in tal maniera si preclude al lettore la possibilità non di verificare (nessun dubbio sulla buona fede dell’autore), ma di approfondire.