13 Mar2014
The Diary of Anne Frank
Alfred Newman
Il diario di Anna Frank (The diary of Anne Frank, 1959)
Real Gone Music 400130
9 brani – durata: 38’22”
La figura di Alfred Newman (1900 – 1970) si staglia in posizione isolata, nella sua grandezza, tra i grandi compositori hollywoodiani della cosiddetta Età d’Oro. Alla guida per un trentennio, dal ’30 al ’60, del dipartimento musicale della 20th Century Fox, per cui compose la celeberrima fanfara-logo e la cui orchestra plasmò in uno strumento dalle indimenticabili caratteristiche, collezionista di Oscar e di nomination, epicentro di un’autentica dynasty di compositori (Emil, Lionel, Thomas, David e Randy sono solo i più noti), Newman è stato un compositore di immensa levatura lirica, dotato di un pathos emozionale unico, capace di accendere stati d’animo, di descrivere speranze e lutti, di rappresentare trionfi e sconfitte attraverso un’orchestrazione particolarmente densa e profonda (che passava per un inconfondibile trattamento degli archi divisi e non di rado attraverso raccoglimenti cameristici) e una felicità melodica che a tratti ricorda le più alte vette del magistero pucciniano. Era il compositore ideale non solo per “pepla” dalla forte impronta melodrammatica (La tunica) ma per melodrammi disperati (L’amore è una cosa meravigliosa), fiammeggianti film d’avventura (Il capitano di Castiglia), graffianti indagini psicologiche e d’ambiente (Eva contro Eva), thriller moderni (Airport) e sontuose ricostruzioni fra storia e romanzo (Anastasia). L’impegno per Il diario di Anna Frank, tuttavia, rappresentò per il compositore qualcosa di particolarmente sofferto e sentito.
Erano trascorsi appena dodici anni dalla pubblicazione del diario della ragazzina ebrea di Amsterdam, testimonianza epitomica e struggente della Shoah, quando Hollywood decise di trasporre su schermo la pluripremiata pièce teatrale che Frances Goodrich e Albert Hackett avevano allestito nel 1955 a New York. Non fu casuale la scelta del regista, George Stevens, che nel ’45 a capo di un reparto speciale era stato tra i primi soldati americani a mettere piede nel campo di sterminio nazista di Dachau, in Baviera: un’esperienza che influenzò profondamente l’animo del regista e il suo atteggiamento “morale” nei confronti della vicenda, accostata come una dolente tragedia di adolescenza stroncata, in un contesto paurosamente claustrofobico, di costrizione psicologica prima e ancor più che fisica. Anche Newman assorbì questa urgenza etica, questo spirito di “necessità”, affrontando quella che sarebbe stata una delle sue ultime partiture per la Fox, quasi a coronamento di un sodalizio con lo studio che aveva prodotto alcune tra le partiture più memorabili nella storia della musica per film. Per calarsi meglio nel contesto, il maestro si recò personalmente ad Amsterdam, nei luoghi di Anna Frank, conobbe il padre, Otto, visitò la casa, la soffitta-nascondiglio, e ne ricavò un’impressione enorme; e quando successivamente attese alla partitura, come ebbe a dichiarare egli stesso, non si prefisse «di illustrare, tranne poche eccezioni, quel che avveniva sullo schermo, bensì di invocare nella musica il ricordo di tempi felici, e l’aspirazione al futuro di un popolo oppresso».
Tutto questo si ritrova nella prima, preziosa ristampa Real Gone Music dal vecchio e magnifico lp Fox, attraverso un accurato lavoro di rimasterizzazione e riordino dei brani, compreso l’inserimento di alcune pagine aggiunte, arricchita dalle note di copertina di Frank K. De Wald. Sono nemmeno quaranta minuti di oro puro, in cui il materiale leitmotiovico newmaniano si dipana con una limpidezza abbagliante e un rigore strutturale ferreo, e la luminosità del suono orchestrale (Newman era un formidabile direttore d’orchestra, che si può vedere al lavoro nella celebre “Street scene,” il prologo di Come sposare un milionario, 1953, Jean Negulesco) si alza delineando le architetture della partitura in pieno sole e in ogni sfumatura.
L’Ouverture è un pezzo chiuso, aperto da una fanfara secca, scandita, che defluisce presto in una sconsolata, perorante frase dei violini a introdurre il primo tema, il vero e proprio tema di Anna, fondato su un doppio, incandescente intervallo di nona: un tema ascendente e volitivo, che nella sua struttura e nella risposta, rasserenata e presaga insieme, di una melodia secondaria discendente, esprime perfettamente quel senso di aspirazione, di anelito ottimista riferito dal compositore. Il secondo protagonista dello score è un tema che potremmo definire del Destino. Qui ci troviamo di fronte a quella che non può essere interpretata altro che come una citazione pressoché letterale (le prime otto note sono perfettamente sovrapponibili) del Tema dell’Ultima Cena che apre il preludio del “Parsifal” di Richard Wagner; importa scarsamente, qui, l’incongruità del contesto (un tema del musicista considerato – a torto o a ragione- simbolo stesso del nazismo per una vicenda a sua volta simbolo della Shoah!), e conta assai più l’elaborazione che del tema fa Newman. Sviluppata inizialmente dal clarinetto poi ripresa struggentemente dagli archi in “Families in hiding”, la melodia si alza in forma di corale per l’estensione di due ottave e ripiega, dopo un intermezzo lieve dei legni in forma di valzer, in un dialogo a canone fra violino e violoncello soli che si conclude fra rintocchi di campane. Ma questo materiale splendente, quasi radioso pur nella propria sostanziale, quasi tangibile premonizione tragica, viene subitamente oscurato, in “The first day”, da une delle più potenti invenzioni newmaniane: il primo giorno di prigionia delle famiglie Frank e Van Dam è infatti accompagnato da un’autentica Trauermarsch, una lugubre marcia funebre fondata su un pedale basso di re a sostenere un ostinato implacabile di due note (re-mi) forgiato di colori orchestrali cupi (ottoni con sordina, gong, campane), all’interno del quale si levano, spettrali e solitari, gli inserti di oboe e, particolarmente straziante, del violino. Pagina di scrittura inesorabile, concentrata, claustrofobica.
Il medesimo andamento ritmico di marcia solenne e luttuosa caratterizza “The Captives”, con una tragica, rinforzata variante in minore del Tema del Destino, mentre “Spring is coming” ci pone dinanzi ad una terza idea, un tema solare in maggiore o tema d’amore, che viene immediatamente concentrato su violino e cello soli, e gli archi newmaniani, roventi e impregnati di una travolgente cantabilità, sottendono il dialogo e si spingono verso una conclusione di abbagliante bellezza. Stride con tutto ciò, ma è moralmente, oltre che simbolicamente necessaria, la presenza di “Ericka”, pezzo bandistico scritto nel ’30 da Herman Niel per l’esercito del Reich e cantato dai soldati nazisti. La fragile, passeggera ma ostinata serenità di Anna, la sua innocenza adolescente circondata dalla ferocia, emergono nel valzer quasi straussiano di “Date with Peter”, reminiscenza e riferimento a quelle “Storielle del Bosco Viennese” che Anna stessa canta nel film: pezzo di intima delicatezza e bucolica grazia, con un intermezzo per legni e celesta, a dimostrazione della padronanza assoluta che Newman aveva nei confronti delle forme classiche mitteleuropee. Ancora il violino solo si confronta con mesti disegni dei legni e con il Tema del Destino nel clarinetto e poi negli archi in “The first kiss”, intercalato con il tema di Anna, concluso da una movenza militaresca e di nuovo dal suono fatale delle campane. I quasi otto, sublimi minuti di “The dearness of you, Peter” si aprono con un mesto clarinetto basso a introdurre un lento, minaccioso movimento di marcia, mentre gli archi riprendono il tema d’amore continuando a privilegiare linee melodiche solistiche che diventano di fatto voci imploranti: qui lo sviluppo contrappuntistico degli elementi ricorda davvero da vicino alcune delle massime conquiste dell’ordito pucciniano, nell’interazione fra gli elementi melodici, sino ad un innalzamento febbrile della temperatura emotiva, in un crescendo travolgente, fiammeggiante che si arresta bruscamente su un unisono di si bemolle stroncato da quattro accordi di mi settima minore ribattuti dai corni, a significare il brutale bussare dei carnefici alla porta. L’”Epilogue” non dà spazio a temi di disperazione o di sconfitta ma, pervicacemente, riafferma nel violino solo il tema di Anna, anelante e affermativo, facendolo poi riprendere luminosamente da tutti gli archi per una conclusione malgrado tutto vittoriosa.
Capolavoro assoluto, Il diario di Anna Frank è – come acutamente osserva De Wald, una partitura attraverso la quale l’ascoltatore percepisce nettamente, e per un momento condivide, il sentimento di speranza di Anna dinanzi a tanta tragedia. Ed è anche una delle conquiste massime del maestro americano in termini di elaborazione di un pensiero musicale e di una concezione strutturale capaci di trasformare la musica in altissima protagonista, linguistica, estetica e morale, di un racconto cinematografico.
Il diario di Anna Frank (The diary of Anne Frank, 1959)
Real Gone Music 400130
9 brani – durata: 38’22”
La figura di Alfred Newman (1900 – 1970) si staglia in posizione isolata, nella sua grandezza, tra i grandi compositori hollywoodiani della cosiddetta Età d’Oro. Alla guida per un trentennio, dal ’30 al ’60, del dipartimento musicale della 20th Century Fox, per cui compose la celeberrima fanfara-logo e la cui orchestra plasmò in uno strumento dalle indimenticabili caratteristiche, collezionista di Oscar e di nomination, epicentro di un’autentica dynasty di compositori (Emil, Lionel, Thomas, David e Randy sono solo i più noti), Newman è stato un compositore di immensa levatura lirica, dotato di un pathos emozionale unico, capace di accendere stati d’animo, di descrivere speranze e lutti, di rappresentare trionfi e sconfitte attraverso un’orchestrazione particolarmente densa e profonda (che passava per un inconfondibile trattamento degli archi divisi e non di rado attraverso raccoglimenti cameristici) e una felicità melodica che a tratti ricorda le più alte vette del magistero pucciniano. Era il compositore ideale non solo per “pepla” dalla forte impronta melodrammatica (La tunica) ma per melodrammi disperati (L’amore è una cosa meravigliosa), fiammeggianti film d’avventura (Il capitano di Castiglia), graffianti indagini psicologiche e d’ambiente (Eva contro Eva), thriller moderni (Airport) e sontuose ricostruzioni fra storia e romanzo (Anastasia). L’impegno per Il diario di Anna Frank, tuttavia, rappresentò per il compositore qualcosa di particolarmente sofferto e sentito.
Erano trascorsi appena dodici anni dalla pubblicazione del diario della ragazzina ebrea di Amsterdam, testimonianza epitomica e struggente della Shoah, quando Hollywood decise di trasporre su schermo la pluripremiata pièce teatrale che Frances Goodrich e Albert Hackett avevano allestito nel 1955 a New York. Non fu casuale la scelta del regista, George Stevens, che nel ’45 a capo di un reparto speciale era stato tra i primi soldati americani a mettere piede nel campo di sterminio nazista di Dachau, in Baviera: un’esperienza che influenzò profondamente l’animo del regista e il suo atteggiamento “morale” nei confronti della vicenda, accostata come una dolente tragedia di adolescenza stroncata, in un contesto paurosamente claustrofobico, di costrizione psicologica prima e ancor più che fisica. Anche Newman assorbì questa urgenza etica, questo spirito di “necessità”, affrontando quella che sarebbe stata una delle sue ultime partiture per la Fox, quasi a coronamento di un sodalizio con lo studio che aveva prodotto alcune tra le partiture più memorabili nella storia della musica per film. Per calarsi meglio nel contesto, il maestro si recò personalmente ad Amsterdam, nei luoghi di Anna Frank, conobbe il padre, Otto, visitò la casa, la soffitta-nascondiglio, e ne ricavò un’impressione enorme; e quando successivamente attese alla partitura, come ebbe a dichiarare egli stesso, non si prefisse «di illustrare, tranne poche eccezioni, quel che avveniva sullo schermo, bensì di invocare nella musica il ricordo di tempi felici, e l’aspirazione al futuro di un popolo oppresso».
Tutto questo si ritrova nella prima, preziosa ristampa Real Gone Music dal vecchio e magnifico lp Fox, attraverso un accurato lavoro di rimasterizzazione e riordino dei brani, compreso l’inserimento di alcune pagine aggiunte, arricchita dalle note di copertina di Frank K. De Wald. Sono nemmeno quaranta minuti di oro puro, in cui il materiale leitmotiovico newmaniano si dipana con una limpidezza abbagliante e un rigore strutturale ferreo, e la luminosità del suono orchestrale (Newman era un formidabile direttore d’orchestra, che si può vedere al lavoro nella celebre “Street scene,” il prologo di Come sposare un milionario, 1953, Jean Negulesco) si alza delineando le architetture della partitura in pieno sole e in ogni sfumatura.
L’Ouverture è un pezzo chiuso, aperto da una fanfara secca, scandita, che defluisce presto in una sconsolata, perorante frase dei violini a introdurre il primo tema, il vero e proprio tema di Anna, fondato su un doppio, incandescente intervallo di nona: un tema ascendente e volitivo, che nella sua struttura e nella risposta, rasserenata e presaga insieme, di una melodia secondaria discendente, esprime perfettamente quel senso di aspirazione, di anelito ottimista riferito dal compositore. Il secondo protagonista dello score è un tema che potremmo definire del Destino. Qui ci troviamo di fronte a quella che non può essere interpretata altro che come una citazione pressoché letterale (le prime otto note sono perfettamente sovrapponibili) del Tema dell’Ultima Cena che apre il preludio del “Parsifal” di Richard Wagner; importa scarsamente, qui, l’incongruità del contesto (un tema del musicista considerato – a torto o a ragione- simbolo stesso del nazismo per una vicenda a sua volta simbolo della Shoah!), e conta assai più l’elaborazione che del tema fa Newman. Sviluppata inizialmente dal clarinetto poi ripresa struggentemente dagli archi in “Families in hiding”, la melodia si alza in forma di corale per l’estensione di due ottave e ripiega, dopo un intermezzo lieve dei legni in forma di valzer, in un dialogo a canone fra violino e violoncello soli che si conclude fra rintocchi di campane. Ma questo materiale splendente, quasi radioso pur nella propria sostanziale, quasi tangibile premonizione tragica, viene subitamente oscurato, in “The first day”, da une delle più potenti invenzioni newmaniane: il primo giorno di prigionia delle famiglie Frank e Van Dam è infatti accompagnato da un’autentica Trauermarsch, una lugubre marcia funebre fondata su un pedale basso di re a sostenere un ostinato implacabile di due note (re-mi) forgiato di colori orchestrali cupi (ottoni con sordina, gong, campane), all’interno del quale si levano, spettrali e solitari, gli inserti di oboe e, particolarmente straziante, del violino. Pagina di scrittura inesorabile, concentrata, claustrofobica.
Il medesimo andamento ritmico di marcia solenne e luttuosa caratterizza “The Captives”, con una tragica, rinforzata variante in minore del Tema del Destino, mentre “Spring is coming” ci pone dinanzi ad una terza idea, un tema solare in maggiore o tema d’amore, che viene immediatamente concentrato su violino e cello soli, e gli archi newmaniani, roventi e impregnati di una travolgente cantabilità, sottendono il dialogo e si spingono verso una conclusione di abbagliante bellezza. Stride con tutto ciò, ma è moralmente, oltre che simbolicamente necessaria, la presenza di “Ericka”, pezzo bandistico scritto nel ’30 da Herman Niel per l’esercito del Reich e cantato dai soldati nazisti. La fragile, passeggera ma ostinata serenità di Anna, la sua innocenza adolescente circondata dalla ferocia, emergono nel valzer quasi straussiano di “Date with Peter”, reminiscenza e riferimento a quelle “Storielle del Bosco Viennese” che Anna stessa canta nel film: pezzo di intima delicatezza e bucolica grazia, con un intermezzo per legni e celesta, a dimostrazione della padronanza assoluta che Newman aveva nei confronti delle forme classiche mitteleuropee. Ancora il violino solo si confronta con mesti disegni dei legni e con il Tema del Destino nel clarinetto e poi negli archi in “The first kiss”, intercalato con il tema di Anna, concluso da una movenza militaresca e di nuovo dal suono fatale delle campane. I quasi otto, sublimi minuti di “The dearness of you, Peter” si aprono con un mesto clarinetto basso a introdurre un lento, minaccioso movimento di marcia, mentre gli archi riprendono il tema d’amore continuando a privilegiare linee melodiche solistiche che diventano di fatto voci imploranti: qui lo sviluppo contrappuntistico degli elementi ricorda davvero da vicino alcune delle massime conquiste dell’ordito pucciniano, nell’interazione fra gli elementi melodici, sino ad un innalzamento febbrile della temperatura emotiva, in un crescendo travolgente, fiammeggiante che si arresta bruscamente su un unisono di si bemolle stroncato da quattro accordi di mi settima minore ribattuti dai corni, a significare il brutale bussare dei carnefici alla porta. L’”Epilogue” non dà spazio a temi di disperazione o di sconfitta ma, pervicacemente, riafferma nel violino solo il tema di Anna, anelante e affermativo, facendolo poi riprendere luminosamente da tutti gli archi per una conclusione malgrado tutto vittoriosa.
Capolavoro assoluto, Il diario di Anna Frank è – come acutamente osserva De Wald, una partitura attraverso la quale l’ascoltatore percepisce nettamente, e per un momento condivide, il sentimento di speranza di Anna dinanzi a tanta tragedia. Ed è anche una delle conquiste massime del maestro americano in termini di elaborazione di un pensiero musicale e di una concezione strutturale capaci di trasformare la musica in altissima protagonista, linguistica, estetica e morale, di un racconto cinematografico.