Uomini e lupi & Le Baccanti & I Mongoli
Mario Nascimbene
Uomini e lupi (1957)
Digitmovies DPDM002
Cd 1, 22 brani – durata: 43’00”
Cd 2, 25 brani – durata: 45’00”
Mario Nascimbene
Le Baccanti (1961)
Digitmovies CDDM213
17 brani – durata: 41’41”
Mario Nascimbene
I Mongoli (1961)
Digitmovies CDDM247
Cd 1, 18 brani – durata: 62’00”
Cd 2, 16 brani – durata: 58’00”
Uno sguardo retrospettivo e storicistico alla musica per film italiana individua immediatamente tre figure fondamentali di cesura, di passaggio da un’epoca all’altra: Giovanni Fusco (1906-1968), Mario Nascimbene (1913-2002) e il più giovane Ennio Morricone. Senza nulla togliere al ruolo di primissimo piano svolto da numerose altre personalità, questi sono tuttavia i tre maestri nei quali, in misura con modalità di linguaggi e stili differenti, si identifica e si incarna il progressivo distacco della musica cinematografica italiana dai moduli anteguerra e immediatamente posteriori, agganciati ai canoni del neorealismo e ancora sostanzialmente debitori alle forme dell’operismo italiano tardo ottocentesco, e soprattutto del verismo musicale di Puccini, Mascagni, Leoncavallo, Giordano, per approdare ad un linguaggio innovato e antinaturalistico, orientato verso altri orizzonti espressivi e pronto ad assimilare tradizioni e convenzioni musicali “esterne”, come il jazz, l’avanguardia, la canzone, la manipolazione in studio dei suoni, l’utilizzo di fonti rumoristiche.
Nel mezzo, Nascimbene rappresenta una cesura fondamentale. Le sue idee musicali muovevano da posizioni tradizionali, sinfoniche e accademiche, ma si orientavano verso un’estrema indipendenza formale e strutturale: quanto dire che materiali “consueti”, anche di routine, potevano venire manomessi, elaborati, plasmati secondo tecniche e procedure per quel tempo rivoluzionarie: si pensi a quel vero e proprio laboratorio che è Barabba, dove l’imponente tema principale gregoriano convive con sonorità riprodotte a mezza velocità e numerosi artifizi manipolatori operati alla fonte, o a Roma ore 11, nella cui colonna sonora è arruolato il ticchettio delle macchine per scrivere. Nascimbene poi può vantare un altro primato: fu il primo tra i nostri compositori ad essere chiamato a Hollywood per collaborare a superproduzioni spettacolari, di genere per lo più mitologico-storico-biblico o di ambientazione medioevale. In un certo senso, fu il nostro Miklòs Ròzsa. Partiture come I vichinghi, Alessandro il Grande, Cartagine in fiamme, Salomone e la regina di Saba, La spada imbattibile, Francesco d’Assisi certo non esauriscono il suo ruolo e il suo stile (Nascimbene era egualmente molto attivo sia nella commedia che nel dramma moderno, da Estate violenta a Le soldatesse a Furto su misura) ma di certo circoscrivono un settore importante della sua produzione: settore nel quale Nascimbene non cessò mai di ricercare, di sperimentare, di intraprendere strade nuove, spesso e volentieri prescindendo orgogliosamente e apertamente dal livello qualitativo delle opere, alcune delle quali si trovarono spesso ad essere arredate da una musica infinitamente superiore, per intuizioni e compiutezza, ai propri meriti.
In misura diversa, si può dire che questo sia il caso dei tre titoli recuperati con un incredibile lavoro di ricerca e restauro dalla Digitmovies in occasione del centenario dalla nascita del maestro, con le versioni integrali in full stereo, sequenza per sequenza grazie al ritrovamento dei master originali, di tre partiture nascimbeniane composte tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, significativamente rappresentative di tre generi che il maestro milanese frequentò assiduamente: l’avventuroso-realistico, il mitologico, lo storico.
Non è un caso che si tratti di tre film dalle vicende produttive piuttosto tormentate, due dei quali di incerta attribuzione registica, e nessuno dei tre baciato da particolare fortuna critica. Si era nel pieno di una produzione italiana che cercava di competere con il gigante hollywoodiano in termini di mezzi ed effetti (di questi stessi anni sono i ròzsiani Ben Hur e Il Re dei re, oltre a Barabba), scontrandosi però con l’esiguità dei mezzi a disposizione, un parco attori limitato che spesso andava a prestito dalle seconde file americane, e sceneggiature raramente all’altezza degli argomenti affrontati. Ma per Nascimbene questo, lungi dall’essere un ostacolo, costituiva un incentivo a dare il meglio di sé, spesso rappresentando così l’elemento più “internazionale” e cosmopolita dei film.
Uomini e lupi è una sorta di western-melò montanaro, ambientato tra le nevi d’Abruzzo, in una vicenda dove passioni e azioni ruotano in eguale misura intorno alla caccia e alla protagonista femminile interpretata da Silvana Mangano (accanto a lei, Yves Montand e Pedro Armendariz): siamo ancora nell’ambito del retaggio tardo-neorealista, di cui il regista, Giuseppe De Santis, è un alfiere, anche se le sue tinte sono stemperate in quelle del racconto popolare fortemente sbalzato. Non contribuirono certo al successo del film il disinteresse del regista per il montaggio definitivo né i tagli operati dalla Titanus di Goffredo Lombardo, che spinsero De Santis a chiedere – inutilmente – il ritiro del suo nome dai titoli. Nascimbene utilizzò un approccio diretto nei confronti dell’ambientazione, declinando tonalità popolane e utilizzando risorse timbriche adeguate: un coro, canti dialettali, una fisarmonica, una chitarra, più un’ampia sezione di archi. Il climax è schiettamente naturalistico, a tratti folkloristico, e la partitura è dominata da due temi principali ricorrenti: uno sereno, quieto e bucolico, un secondo più pensoso e con una coda di risposta che diviene un tema autonomo, un motto ripetuto e malinconicamente declinante. È un materiale semplice, quasi elementare, quindi molto malleabile lungo un registro espressivo che va dal lirismo popolare più esplicito ad una più complessa elaborazione contrappuntistica. L’imperioso tema dei titoli negli archi (seq. 1) introduce un’atmosfera fatalistica, drammatica, agitata; e il motto-coda scandito tra oboe e archi, anche nel violino solo, quasi un segnale di morte. Corni da caccia (seq. 2) aprono al tema più tranquillo e cantabile, sul rintocco delle campane, mentre l’armonica e poi il clarino che accompagnati dalla chitarra suonano il canto popolare “Zompa cardillo” (seq. 4, anticipandone le versioni per voce maschile dei bonus track sul cd 2) sono da base per una variazione patetica degli archi. Le idee si intrecciano, si ripetono e si rincorrono (seq. 5 e 6) fungendo da richiami e da appelli, in una consapevole frammentazione del discorso musicale, con exploit variativi continui (seq. 7), coesi dalla direzione vibrante, tesissima e timbricamente inesorabile del grandissimo Franco Ferrara, il re Mida della musica per film italiana degli anni ’50 e ’60, sul podio di tutte e tre le partiture. Momenti di tensione (seq. 9) utilizzano cellule tematiche per flash fulminei, in uno scorrimento continuo degli elementi-base costituiti dai due temi principali, dal motto e dalla canzone popolare, che occupano interamente le sequenze con lievi alterazioni espositive da parte di vari strumenti (armonica, cello solo, flauto) che però non mutano l’ordine dei fattori; in alcuni frangenti (seq. 14) la trasposizione in tonalità minore incupisce l’atmosfera, che rimane comunque improntata ad un romanticismo mediterraneo passionale e corrucciato; altrove il materiale viene ulteriormente elaborato drammaturgicamente, spostandolo sui piani armonici (seq. 17), fra tremoli e incisi imperiosi, o dilatato in un lirismo idilliaco (seq. 19), o inframmezzato a canti popolari montani (seq. 20), sia vocali che strumentali, ampiamente esposti soprattutto nel secondo cd, anche grazie a ben dieci bonus tracks. I rapporti di Nascimbene con le fonti sono esplicitamente liberi, come dimostrano seq. 23 e 24, che segmentano i due temi principali in un gioco complesso di intervalli, di quinte aperte e di contrappunti: non è musica “popolare” in senso filologico, ma personale rielaborazione di materiali autoctoni secondo una visione moderna, “laica” e affrancata da costrizioni testuali.
Le procedure non cambiano di molto nei due film in costume. Le Baccanti, versione fotoromanzata del testo di Euripide con una sceneggiatura a troppe mani e la regia dimessa di Giorgio Ferroni, appartiene a quel genere fantasy-mitologico che ebbe negli anni ’50-’60 grande fortuna a Cinecittà e al quale Nascimbene si accingeva dall’alto di tutta la propria cultura accademica. Ripercorrendo moduli arcaici, evocando un coro vocalizzante femminile e misterioso (seq. 1 e seq. 4) a sua volta richiamante quello originario della tragedia, assottigliando talora il suono sino a spessori spettrali, ricorrendo spesso a strumenti solisti soprattutto nei fiati, il compositore crea un clima esoterico, impalpabilmente irreale (seq. 7 e seq. 8), dove l’antico si confonde quasi con la fantascienza, anche grazie all’introduzione di effetti elettronici, con i quali il maestro prepara il terreno alla rivoluzione che attuerà in Barabba. La marcia lenta della seq. 9, cadenzata in un disegno suadente degli archi e introdotta da secche fanfare, esibisce una solennità filtrata in uno sguardo distaccato, e per contrasto fa il paio con il “molto mosso” negli archi della seq. 1, colorato di valenze respighiane. Il rapporto con l’antico di Nascimbene, ancora una volta, è un rapporto modernizzante, innovativo, di ricerca e di riscrittura: le linee melodiche a volte si aprono a suggestioni quasi esotiche (seq. 10, dopo l’impressionante intro delle percussioni), altrove si cristallizzano in rigorose, solitarie melopee come nell’assolo di fagotto ritmato dalle percussioni sul “sol” tenuto degli archi della seq. 12, poi trasferito a oboe e flauto, con le trafitture periodiche di ottoni e clarinetti. È un’opzione fortemente antiaccademica e antiscolastica, quella di Nascimbene, la cui musica pur nell’ossequio alle formule richieste dal contesto esprime sempre lo spirito del proprio tempo, il sound di laboratorio e di cambiamento di quell’inizio di anni Sessanta in cui muoveva i primi massi anche Morricone e che si riveleranno così decisivi per il profilo della musica cinematografica italiana. Le Baccanti predilige gli assoli di legni lievemente accompagnati da arpa o vibrafono, spesso dialoganti a canone e poi magari trasformati in scatenate accelerazioni (seq. 14), ed è comunque una partitura immersa in un background metafisico, iperuranico, a tratti immateriale, dove improvvise esplosioni “fredde” di suono (seq. 16) si contrappongono a celestiali sussurri e incorporei tremolii o a cupi richiami dei corni scanditi dai tamburi (Finale) prima della luminosa ricapitolazione conclusiva.
Di questo trittico nascimbeniano, I Mongoli rappresenta il lato più esposto sul fronte delle convenzioni di genere, trattandosi in superficie di un racconto storico intorno alle gesta del condottiero Gengis Khan e del figlio Ogotai (Jack Palance), ma in realtà di un melodramma avventuroso di tradimenti familiari, amori, alleanze e sconfitte ammantato da un esotismo estetizzante e violento. Altro film senza padri (prodotto e girato in Italia con ben tre registi succedutisi, alla fine dei quali la firma prevalente rimase quella dell’ungaro-americano André De Toth) I Mongoli costituì un ulteriore test utile a Nascimbene per lavorare su stereotipi consolidati smontandoli dall’interno: in questo caso, ovviamente, quelli della musica asiatica. La strumentazione qui si fa raffinatissima, ricca di percussioni locali (dai Titoli a tutte e sei le prime sequenze) ma anche – a dimostrazione del “metodo” nascimbeniano – ottenuta attraverso minuziosi sopralluoghi insieme a Ferrara nel reparto stoviglie di numerosi supermercati, alla ricerca di pentole, padelle e coperchi che potessero produrre i suoni desiderati. Il modello più vicino qui sembra quello de I Vichinghi (1958), in direzione di un’assimilazione di moduli compositivi caratteristici (lì della musica nordica, qui asiatica) e della loro rielaborazione moderna grazie ad un’orchestrazione rovente e irrefrenabile. La partitura è dominata da un unico grande tema guerresco delle trombe e vibra di musica di battaglia, di squilli perforanti e inappellabili (seq. 8) sui quali è costruito un tessuto sinfonico insinuante e contemporaneo, fitto di richiami di guerra (seq. 9, fenomenale pagina per soli ottoni) e di agguati strumentali, soprattutto fra gli archi e le variopinte percussioni che si rincorrono in lungo e in largo. La drammaturgia sonora però è più variegata che in altre occasioni, e molte pagine sono agitate da una scrittura densa, drammatica, mai meramente decorativa. I conflitti fra i personaggi, numerosi, trovano eco nei conflitti fra le sezioni (archi e legni, archi e ottoni), quasi sempre risolti nell’imposizione perentoria del tema principale (seq. 12 e 13) a sovrastare qualunque altro elemento per quanto potente, oppure dissolti, polverizzati in dissonanze estreme ed effetti ancora una volta “alieni”. Le percussioni orientaleggianti e i numerosi pezzi da balletto di corte (seq. 7) confluiscono nello score senza riuscire però a sottrarlo alla propria fisionomia di “war music” moderna e convulsiva, i cui tratti qui si accentuano soprattutto all’altezza del secondo cd. La seq. 19 è ad esempio un’inesorabile marcia di sapore quasi mussorgskiano fondata su un inamovibile ostinato mentre la 20 utilizza un coro misto attorniato dal brulichio delle percussioni in una specie di danza ditirambica e martellante. Scompare progressivamente ogni vincolo diciamo così “esotico”, e i moduli tipici della musica orientale si fondono e confondono in una strumentazione anomala, contaminata e tumultuosa, dominata da continue invenzioni ritmiche che finiscono con il rappresentare la struttura portante della partitura. Le idee melodiche sono ridotte al proprio stadio elementare ed assorbite in un’architettura sinfonica che prende a tratti contorni brutali, ferrigni, primordiali. Nascimbene non è un compositore lezioso né ornamentale, e in occasione di queste committenze esibiva un lato epico lontano dai modelli hollywoodiani conclamati (Ròzsa, Newman), e piuttosto vicino alle conquiste timbriche di Alex North in Spartacus o Cleopatra, lontanissime da qualsiasi ricercatezza o abbellimento del suono. L’accensione dei momenti più tesi e convulsi, animati da un pathos travolgente (seq. 22) convive con repentine distensioni liriche e accorate parentesi intimiste, mentre il particolare suono delle percussioni su legno diviene la nota di colore predominante e più significativa, evocando in alternanza con brucianti fanfare ritmi di guerra e fasi di aggressione (seq. 24). Vengono abbandonati con decisione tutti gli stereotipi più prevedibili, lo score si prosciuga, si arroventa in un climax “barbaro”, ostile e squadrato, facendo di questa senz’altro la più sorprendente e ribollente delle tre partiture qui presentate: irrompe anche un reticolato di complesse dissonanze e politonalismi (seq. 26) reso ancor più inestricabile da un intreccio serrato di elementi tematici, e alleggerito solo da periodiche schiarite liriche come la suadente, morbida e cullante movenza per archi della seq. 27. Intorno ai singoli momenti viene costruito, scrupolosamente organizzato un caos timbrico sorvegliatissimo, che proprio il recupero integrale dei master consente di analizzare compiutamente, sovrastato dalle percussioni ma anche attraversato da improvvise deviazioni dal fronte della tonalità, con trilli perforanti e interminabili e divagazioni corali sinistre (seq. 32); Nascimbene sembra qui operare una semplificazione estrema dei mezzi, con la cancellazione di qualsiasi elemento esteriore o “elegante”, e ridurre lo score all’osso, fondendo elementi diversi in un sincretismo potente e imperioso. I bonus tracks, che ci offrono la sequenza di danza n.7 in versione priva di coro, e due versioni del poderoso, solare finale (con coro e senza) chiudono questo lavoro, che appare alla fine come il più sperimentale e avanzato dei tre proposti.
Rimane comunque netta la percezione di una figura di assoluta, straordinaria modernità nel percorso compiuto dalla musica per film italiana di quest’epoca, grazie al profilo creativo di un artista che non conosceva remore di genere né limiti di mezzi nel cercare, e ottenere, risultati mai scontati all’interno di un’attività dove il puro mestiere a volte significa tutto, ma altre volte rischia di non portare a nulla.