09 Apr2015
A Million Ways to Die in the West
Joel McNeely
Un milione di modi per morire nel West (A Million Ways to Die in the West, 2014)
Backlot Music 5797-00026-7
16 brani + 2 canzoni – Durata: 41’20”
C’è modo e modo di parodiare (nel senso nobile del termine, non spregiativo) musicalmente l’atmosfera dei western anni ’40 e ’50, e i suoi leggendari soundtrack di compositori come Dimitri Tiomkin, Elmer Bernstein o Jerome Moross. Una strada è quella percorsa da Alan Silvestri in Pronti a morire: ossia la parafrasi di modalità facilmente identificabili e associabili al genere (in questo caso morriconiane), così da creare una saldatura fra l’età classica del genere hollywoodiano e la sua evoluzione esasperata e crepuscolare in Europa. L’altra è quella di esaltarsi nella riproposizione di un’epica solare e ariosa, con intenti ironici e autoironici, baldanzosamente incuranti dell’impostazione chiaramente e “politicamente” scorretta del film rispetto ai modelli di riferimento: ed è ad esempio l’opzione messa in campo da Randy Newman in Maverick o da Bruce Broughton in Silverado. Niente a che spartire, in entrambi i casi, con le tonalità evanescenti e intimamente tragiche, anche musicali, dei western di Clint Eastwood regista.
Il secondo metodo è anche quello scelto dal regista e interprete Seth MacFarlane e dal suo musicista Joel McNeely (già in tandem per la serie animata demenzialeggiante American Dad!) in questo anti-western scatologico e grottescamente fuori di testa. Ora, McNeely è noto soprattutto per la sua pregevole e instancabile attività di direttore d’orchestra, nella cui veste ha reinciso – riportandole ad una luce splendente e confermando come esista ormai una vera e propria storia dell’interpretazione cinemusicale – grandi partiture di Bernard Herrmann, John Barry, Franz Waxman e altri numi tutelari della Golden Era; accanto a questa però, McNeely pratica sin dalla fine degli anni ’80 anche un’intensa attività compositiva, soprattutto per la televisione (Le avventure del giovane Indiana Jones), che risente con tutta evidenza della sua consuetudine e conoscenza esecutiva con gli score storici di quei maestri. Ecco allora che ad esempio il song “A million ways to die”, su testo umoristico del cantautore country Alan Jackson, nella sua andatura spigliata, è lo specchio deformante di celeberrime canzoni western come quelle che Frankie Laine cantava per Sfida all’OK Corral o Mezzogiorno di fuoco, così come gli arpeggi incessanti dei violini e lo squillo degli ottoni ripetono quasi alla lettera il main theme morossiano di Il grande paese; non da meno sono la melodia teneramente lirica per armonica di “Missing Louise” o il tema giocoso e danzante di “Old stump”, che adombrano rispettivamente certi notturni tiomkiniani e il dinamismo di Elmer Bernstein. Siamo perciò dinanzi ad una partitura eminentemente citazionistica, quasi una crestomazia di “tòpoi” western musicali ricostruiti con perizia certosina e, sotto sotto, un grande rimpianto; elementi che si avvertono nitidamente in pagine come la scattante “Saloon brawl”, che si riappropria del main theme, o il delicato “Rattlesnake ridge” che affida al clarinetto una limpida melodia raddoppiata dall’oboe e sostenuta dal morbido fraseggio degli archi. Ancora gli archi saltellano conversevoli e agili in “People die at the fair”, su fioriture umoristiche di tromba e flauto, per tornare poi inevitabilmente al tema conduttore; ed ancora il “convitato di pietra” Elmer Bernstein, in particolare I magnifici sette, si affaccia in “The shooting lesson”, mentre “The Barn dance”, col suo violino da saloon e il banjo, è una perfetta full immersion nei colori di una square dance virtuosistica e colorita.
La parte canora fa il bis con la spiritosa, anzi caricaturale “If you’ve only got a moustache” del tenore texano Amick Byram, che nel film interpreta Marcus Thornton, ma ecco che “Anna and Albert”, nel suo sottolineato, struggente romanticismo per oboe e archi, valica decisamente il confine della citazione ironica e fa desiderare che in qualche modo McNeely si cimenti “seriamente” con il genere. Del resto, l’abilità intellettuale di esercizi come questi consiste proprio nell’abbattere, o quantomeno nel rendere ambigui e sfumati, i confini fra modello di riferimento ed “imitazione”. Tonalità più cupe e sospese, con effetti di suspense e drammatiche incursioni degli ottoni, dilagano in “Clinch hunts Albert”; ma un’autentica esplosione di adrenalina ritmica investe “Racing the train”, dove si scorgono echi e citazioni puntuali del Williams di L’ultima crociata: una pagina dove il virtuosismo strumentale del compositore brilla di luce propria. Vitreo e suggestivamente scandito è “Captured by Cochise”, che precede nuovi stilemi williamsiani (gli staccati dei legni) in “Albert takes a trip”, drammatico assemblaggio di dissonanze e glissandi che costituiscono l’unico aspetto diciamo così postmoderno della partitura. Luminosamente, viene lasciato defluire il main theme in “The showdown”, dapprima sommessamente poi con una fulminea accensione orchestrale, infine nuovamente racchiuso tra sonorità notturne e raccolte. Il tema principale può distendersi liberamente solo in “Sheep to horizon”, ed essere poi al centro della ricapitolazione sorridente ed energica di “End title suite”.
Un pastiche, certamente, consapevole di esserlo, questa partitura di McNeely; ma da non sottovalutare anche come omaggio affettuoso e ad occhi asciutti ad un’epoca, un genere, e autori che fanno parte di un passato del cinema al quale accostarsi con devozione sorridente e infinita nostalgia.
Un milione di modi per morire nel West (A Million Ways to Die in the West, 2014)
Backlot Music 5797-00026-7
16 brani + 2 canzoni – Durata: 41’20”
C’è modo e modo di parodiare (nel senso nobile del termine, non spregiativo) musicalmente l’atmosfera dei western anni ’40 e ’50, e i suoi leggendari soundtrack di compositori come Dimitri Tiomkin, Elmer Bernstein o Jerome Moross. Una strada è quella percorsa da Alan Silvestri in Pronti a morire: ossia la parafrasi di modalità facilmente identificabili e associabili al genere (in questo caso morriconiane), così da creare una saldatura fra l’età classica del genere hollywoodiano e la sua evoluzione esasperata e crepuscolare in Europa. L’altra è quella di esaltarsi nella riproposizione di un’epica solare e ariosa, con intenti ironici e autoironici, baldanzosamente incuranti dell’impostazione chiaramente e “politicamente” scorretta del film rispetto ai modelli di riferimento: ed è ad esempio l’opzione messa in campo da Randy Newman in Maverick o da Bruce Broughton in Silverado. Niente a che spartire, in entrambi i casi, con le tonalità evanescenti e intimamente tragiche, anche musicali, dei western di Clint Eastwood regista.
Il secondo metodo è anche quello scelto dal regista e interprete Seth MacFarlane e dal suo musicista Joel McNeely (già in tandem per la serie animata demenzialeggiante American Dad!) in questo anti-western scatologico e grottescamente fuori di testa. Ora, McNeely è noto soprattutto per la sua pregevole e instancabile attività di direttore d’orchestra, nella cui veste ha reinciso – riportandole ad una luce splendente e confermando come esista ormai una vera e propria storia dell’interpretazione cinemusicale – grandi partiture di Bernard Herrmann, John Barry, Franz Waxman e altri numi tutelari della Golden Era; accanto a questa però, McNeely pratica sin dalla fine degli anni ’80 anche un’intensa attività compositiva, soprattutto per la televisione (Le avventure del giovane Indiana Jones), che risente con tutta evidenza della sua consuetudine e conoscenza esecutiva con gli score storici di quei maestri. Ecco allora che ad esempio il song “A million ways to die”, su testo umoristico del cantautore country Alan Jackson, nella sua andatura spigliata, è lo specchio deformante di celeberrime canzoni western come quelle che Frankie Laine cantava per Sfida all’OK Corral o Mezzogiorno di fuoco, così come gli arpeggi incessanti dei violini e lo squillo degli ottoni ripetono quasi alla lettera il main theme morossiano di Il grande paese; non da meno sono la melodia teneramente lirica per armonica di “Missing Louise” o il tema giocoso e danzante di “Old stump”, che adombrano rispettivamente certi notturni tiomkiniani e il dinamismo di Elmer Bernstein. Siamo perciò dinanzi ad una partitura eminentemente citazionistica, quasi una crestomazia di “tòpoi” western musicali ricostruiti con perizia certosina e, sotto sotto, un grande rimpianto; elementi che si avvertono nitidamente in pagine come la scattante “Saloon brawl”, che si riappropria del main theme, o il delicato “Rattlesnake ridge” che affida al clarinetto una limpida melodia raddoppiata dall’oboe e sostenuta dal morbido fraseggio degli archi. Ancora gli archi saltellano conversevoli e agili in “People die at the fair”, su fioriture umoristiche di tromba e flauto, per tornare poi inevitabilmente al tema conduttore; ed ancora il “convitato di pietra” Elmer Bernstein, in particolare I magnifici sette, si affaccia in “The shooting lesson”, mentre “The Barn dance”, col suo violino da saloon e il banjo, è una perfetta full immersion nei colori di una square dance virtuosistica e colorita.
La parte canora fa il bis con la spiritosa, anzi caricaturale “If you’ve only got a moustache” del tenore texano Amick Byram, che nel film interpreta Marcus Thornton, ma ecco che “Anna and Albert”, nel suo sottolineato, struggente romanticismo per oboe e archi, valica decisamente il confine della citazione ironica e fa desiderare che in qualche modo McNeely si cimenti “seriamente” con il genere. Del resto, l’abilità intellettuale di esercizi come questi consiste proprio nell’abbattere, o quantomeno nel rendere ambigui e sfumati, i confini fra modello di riferimento ed “imitazione”. Tonalità più cupe e sospese, con effetti di suspense e drammatiche incursioni degli ottoni, dilagano in “Clinch hunts Albert”; ma un’autentica esplosione di adrenalina ritmica investe “Racing the train”, dove si scorgono echi e citazioni puntuali del Williams di L’ultima crociata: una pagina dove il virtuosismo strumentale del compositore brilla di luce propria. Vitreo e suggestivamente scandito è “Captured by Cochise”, che precede nuovi stilemi williamsiani (gli staccati dei legni) in “Albert takes a trip”, drammatico assemblaggio di dissonanze e glissandi che costituiscono l’unico aspetto diciamo così postmoderno della partitura. Luminosamente, viene lasciato defluire il main theme in “The showdown”, dapprima sommessamente poi con una fulminea accensione orchestrale, infine nuovamente racchiuso tra sonorità notturne e raccolte. Il tema principale può distendersi liberamente solo in “Sheep to horizon”, ed essere poi al centro della ricapitolazione sorridente ed energica di “End title suite”.
Un pastiche, certamente, consapevole di esserlo, questa partitura di McNeely; ma da non sottovalutare anche come omaggio affettuoso e ad occhi asciutti ad un’epoca, un genere, e autori che fanno parte di un passato del cinema al quale accostarsi con devozione sorridente e infinita nostalgia.