24 Apr2012
Masada
Jerry Goldsmith, Morton Stevens
Masada (Id., 1981)
Intrada Special Collection, vol.171
Cd 1, 34 brani – durata: 75’34”
Cd 2, 30 brani – durata: 73’55”
Jerry Goldsmith è fra quei maestri della musica cinematografica che hanno sempre ricavato il massimo dalle committenze televisive: come Bernard Herrmann prima di lui e, insieme a lui, John Williams negli Usa o Ennio Morricone in Italia. Lo ha fatto semplicemente applicando al piccolo schermo le tecniche e le procedure utilizzate per le partiture del grande schermo, che ne hanno delineato negli anni lo stile inconfondibile e la potenza drammaturgica: opzioni ritmiche spregiudicate, sussultorie e incalzanti, strumentazione al calor bianco, di ricchezza straripante e con soluzioni esecutive spesso temerarie, felicità tematica siderale, con invenzioni di alcuni tra i più splendenti leit-motiv nella storia di questo linguaggio. Sono tutte caratteristiche che si ritrovano nella arroventata, rigogliosissima partitura di Masada, la miniserie Universal prodotta nel 1981 per la ABC nella quale, per la regia di Boris Sagal, si rievocò il drammatico assedio alla fortezza di Masada (o Metzada in ebraico), posta su uno sperone di roccia 400 metri a picco sulla costa sud-ovest del Mar Morto, oggi prezioso sito archeologico tutelato dall’Unesco, che nel 73 dopo Cristo vide un pugno di qualche centinaio di ebrei zeloti resistere per oltre due anni a cinquemila legionari romani prima di decidere un tragico suicidio di massa (compresi donne, vecchi e bambini) pur di non soccombere all’odiato nemico. Un episodio che è entrato a far parte della mitologia patriottica dello stato di Israele e che nella versione ovviamente romanzata scritta per il teleschermo da Joel Oliansky, ricavata dal romanzo “The Antagonists” di Ernest K. Gann, prende anche la forma di un duello personale all’ultimo sangue fra i due leader dei rispettivi fronti, il capo giudaico Eleazar ben Yair interpretato da Peter Strauss e il generale romano Cornelio Flavio Silva impersonato da Peter O’Toole.
Il progetto, che inizialmente doveva essere un film per il grande schermo con la regia di Sydney Pollack (la guerra del Kippur del ’73 ne impedì la realizzazione in Medio Oriente) e che poi si tradurrà anche, con scarso successo, in una versione per le sale cinematografiche compulsata in 90 minuti, fu una delle rare occasioni in cui Goldsmith chiese fortissimamente e ottenne l’assegnazione della partitura, applicandovisi con una dedizione e una cura particolari. Ce ne informa adesso, nel booklet accompagnatorio di questa splendida “special edition” in due cd della Intrada, lo studioso Jon Burlingame impegnatosi in una meticolosa analisi dello score, arricchita da una nota dello stesso produttore del disco Douglass Fake. Burlingame riporta infatti alcune interviste rilasciate dal compositore, nelle quali Goldsmith – ebreo – ricorda con gioia l’esperienza vissuta in Israele, quando vi fu inviato per una decina di giorni dalla produzione a documentarsi sui materiali musicali originari da utilizzare per la partitura. Un’impresa vissuta dunque da Goldsmith con un forte impatto e coinvolgimento, anche emotivo, personali, così come era avvenuto sette anni prima per QB VII, un’altra miniserie della ABC musicata dal compositore californiano, stavolta sullo sfondo della tragedia della Shoah.
Naturalmente sarebbe un errore pensare ad una partitura “filologica” nel senso accademico e deteriore del termine: valeva per Goldsmith ciò che valse, in circostanze analoghe, per il sommo Miklós Rózsa (Quo Vadis, Ben Hur, El Cid), ossia la ricerca delle fonti non era che un punto di partenza per uno sviluppo assolutamente moderno e personale di materiali autonomi, che tuttavia venivano caricati da quelle sorgenti di una potenza e una forza assolutamente preziose. Il doppio cd Intrada (a suo tempo preceduto da un selettivo lp Mca) offre il soundtrack integrale di tutte e quattro le parti di cui è composta la miniserie: le prime due orchestrate dal fido Arthur Morton sotto l’implacabile direzione di Goldsmith, le ultime due composte, orchestrate e dirette da Morton Stevens, compagno di college e vecchio collaboratore di Goldsmith (soprattutto sul fronte televisivo), cui subentrò su suggerimento di quest’ultimo, impossibilitato a terminare il lavoro di propria mano per i troppi altri impegni e per una serie di vicissitudini della produzione.
Si deve appunto al “comune sentire” fra i due compositori e amici se il dislivello e la discontinuità qualitativa fra le prime due parti e le ultime due sono stati ridotti al minimo indispensabile, anche grazie al fatto che Stevens attinse largamente, per il proprio compito, al materiale tematico goldsmithiano.
Che è sostanzialmente imperniato su tre leit-motiv portanti. Il primo, noto come “Masada theme” e strettamente associato al popolo ebraico, è una sorta di inno vitale e palpitante, spavaldo e danzante, dalle movenze vagamente slaveggianti, che compare sin dai Main Title, prima nei legni poi nel flautando degli archi infine più baldanzosamente negli ottoni, dopo una sublime introduzione lenta ed arabeggiante dell’oboe, e che attraverserà incessantemente la partitura. L’introduzione di cui sopra costituisce il fondamento del secondo tema, una delle più struggenti melodie mai uscite dall’ispirazione goldsmithiana, che in “The Slaves” viene cantato dal corno inglese in coppia col violoncello solo e poi sviluppato dagli archi e dai fiati su un lugubre rintocco del tamburo: tema scuro e fosco, gravido di presagi infausti. Pagina, anche, la cui espansione strutturale e strumentale consente di capire bene qual è il tipo di approccio culturale, moderno personale e insieme rigorosissimo, che muove Goldsmith, appunto, nel “risalire alle fonti”.
Alla controparte, ossia i romani, è riservato il terzo blocco tematico, un imponente apparato di fanfare livide e squillanti (“Roman March”, ma soprattutto l’esplosione rutilante di “Move on”, dove peraltro esse interagiscono con il Masada theme), concepite per toni interi e ritmi squadrati, che ne restituiscono ad un tempo la brutalità militare e l’inesorabile precisione strategica. Nulla a che vedere con analoghe pagine rózsiane, assai più violente e meno ritmicamente e timbricamente raffinate: il primitivismo di Goldsmith passa infatti attraverso tecniche strumentali molto personali (i glissando imposti ai tromboni) ed un’impazienza ritmica tellurica, ben riscontrabile in “The Granary”.
La tavolozza tematica di Masada si compone ovviamente di altri elementi, come l’intensa, lirica melodia d’amore dedicata dapprima a Eleazar e alla moglie Miriam, esposta la prima volta brevemente dall’oboe in “Nothing to worry about” e poi, specularmente, dopo una più tormentata introduzione dei celli, al generale Silva e alla sua consorte ebrea Sheva, stavolta grazie ai legni e ai violini: quasi superfluo annotare come l’utilizzo di un medesimo love theme per i due “antagonists” e le rispettive mogli esprima con tutta evidenza una pulsione o almeno una speranza salvifica nei confronti dell’amore rispetto ai conflitti e agli orrori della guerra, magnificamente restituita da Goldsmith nel diverso trattamento del tema.
La coabitazione fra antico e moderno risalta nella vicinanza fra un’infinita e inesauribile serie di torrenziali variazioni sinfoniche sul materiale sin qui esposto, e alcuni significativi esempi di “source music”, frutto palese delle ricerche filologiche goldsmithiane. Un esempio ne è “The Mime”, personalmente strumentata dal compositore sulla base di fonti romane, per fagotto, flauto, oboe, due corni, campane, percussioni antiche e contemporanee; oppure “The Moabites”, che prevede l’utilizzo del santur, un salterio di origine persiana con cassa armonica provvisto di ponticelli mobili sotto ogni corda, della darabouka, un membranofono a percussione proveniente dal Nord Africa e dal Medio Oriente, o delle maracas metalliche. Non è sfoggio etnomusicologico, ma un accostamento dialettico e continuo fra soluzioni proiettate in un climax di drammatica contemporaneità (gli effetti surreali degli archi in “Lineup”) e puntuali riferimenti al contesto storico-musicologico (“Roman Horns”).
La sfida che si trovò ad affrontare Stevens nel succedere a Goldsmith era ostica: considerato l’oggettivo divario di talento fra i due colleghi ed amici ma anche la confidenza notevole che il primo aveva con le partiture del secondo, si trattava anche di subentrare proprio nelle due parti della miniserie in cui tutti i gangli narrativi e drammaturgici toccavano il proprio apice. Più che mai necessario, dunque, evitare ogni eccessiva differenziazione e – al contrario – conservare almeno nelle grandi linee il paesaggio sonoro epico ed evocativo straordinario che Goldsmith aveva saputo creare.
Per far questo Stevens, il cui profilo e la cui attitudine tv erano assai più marcati (suo il celeberrimo tema della serie Hawaii 5 – 0), ricorse alla più ovvia e sensata delle soluzioni, ossia di attingere abbondantemente al materiale leitmotivico goldsmithiano. A cominciare dal Masada theme, una cui versione energizzata e frizzante compare sin da “Masada Intro”, all’inizio del secondo cd: e va osservato che tutta la sua straordinaria abilità di orchestratore e direttore emerge proprio nelle funamboliche capacità di assorbimento e variazione che egli dimostra nella manipolazione di questo ed altri temi, come negli ottoni in sordina che lo minacciano in “Running water” o vi alludono in “Falco’s tour”, oppure nel sapiente utilizzo del love theme tra Silva e Sheva in “Nothing to give”.
La tavolozza timbrica di Stevens appare estremamente avanzata ed alcune soluzioni armoniche ed atonali (“Mid-day ration of death” e soprattutto l’isterico monologo dei violini uniti in “Silva’s soliloquy”) decisamente spericolate: si nota una più spiccata frammentazione dei tracks, in coda ad alcuni dei quali sembrano fare capolino anche i “bumpers”, i brevi annunci che precedono l’inserzione degli spot pubblicitari (ma qualcuno ne aveva scritto anche Goldsmith per le prime due parti). Di qui una stringatezza a volte sbrigativa, ferrigna nell’esposizione dei piani sonori, soprattutto per le parti romane (“901 Tk1”), ed una più rigida economia nella distribuzione dei riferimenti tematici. In alcuni frangenti (“End Part III” e gli “End Credits”) sembra quasi che Stevens si autoreleghi al ruolo di ri-orchestratore dei passaggi goldsmithiani: ma l’atteggiamento libero nei confronti di questi sembra raddoppiarne l’efficacia propositiva, soprattutto grazie alla fiammeggiante strumentazione, volta specialmente ad esaltare il tratto disperatamente epico ed eroico dei temi ebraici: si ascoltino il Masada theme trasformato in epicedio funebre lentissimo dai corni in “Eleazar speaks” o l’assolo vibrante del clarinetto in “Burn it/Fire” e di nuovo una cadenza del medesimo strumento intarsiata in un passaggio virtuosistico del violino solo in “Plenty of time”. In altre parole il contributo di Stevens si configura alla fine come una ricapitolazione e una “liquidazione” (in senso strettamente musicologico) degli elementi goldsmithiani, portati ad un punto di fusione emotiva (“Sheva’s decision” sul registro sovracuto dei violini) e in buona sostanza contemplati nella loro inattingibilità lirica quanto riletti e scorporati in ogni possibile diramazione narrativa e psicologica.
Più che un confronto fra i due apporti, quindi, l’integrale di Masada va assolutamente recepito come un unicum a quattro mani, un pregevole recupero di un lavoro estremamente complesso e frastagliato, nel quale la stella moderna e inquieta di Goldsmith splende anche grazie allo scrupoloso e laico lavoro di uno dei suoi alter ego più talentuosi e affidabili.