Fahrenheit 451
Matteo Zingales, Antony Partos
Fahrenheit 451 (Id., 2018)
Milan Music M2-36965
16 brani – Durata: 66'47”
C'è remake e remake, ma quando ci si impegna a rifare, più di mezzo secolo dopo, Fahrenheit 451 di François Truffaut, dal celebre e profetico romanzo distopico di Ray Bradbury (vi si ipotizza non solo la scomparsa ma la criminalizzazione della cultura cartacea, mandata al rogo da squadre di vigili “sul” fuoco...), la montagna da scalare è davvero impervia. Non utilizziamo la metafora a caso, visto che uno dei due sceneggiatori di sangue iraniano, Amir Naderi (l'altro è il talentuoso regista Ramin Bahrani), è autore dell'estremo, titanico Monte (2016), in cui un contadino del Medioevo abbatte a picconate, per un tempo infinito e indefinito, la montagna che oscurando la luce del sole mette a repentaglio la sopravvivenza sua e della sua famiglia.
Quanto basta per intuire che la nuova rilettura delle pagine di Bradbury proposta da Bahrani e Naderi in questa versione per il canale HBO si carica nelle intenzioni degli autori di tutte le valenze e i simboli possibili nella difficile contemporaneità, radicalizzando ad esempio il conflitto tra il “pompiere” dubbioso Montag (che qui diventa afro, interpretato da Michael B.Jordan nel ruolo che fu di Oskar Werner) e lo spietato capitano Beatty (l'inquietante Michael Shannon al posto di Cyril Cusack).
Ovviamente parte cospicua di questa montagna è rappresentata dalla partitura di Bernard Herrmann, uno degli ultimi capolavori del maestro americano alla sua prima collaborazione – due anni dopo seguirà La sposa in nero – con Truffaut, che venerava il compositore esattamente come aveva venerato il suo regista di riferimento, Alfred Hitchcock: un impasto sublime di lirismo straziato, di umanesimo musicale, di aggressiva e ostile modernità. Vale anche in questo caso quanto recentemente osservato a proposito del Ben-Hur di Beltrami/Rózsa e del Papillon di Buckley/Goldsmith: nessun paragone è possibile né lecito, ed è indicativo che i primi a rendersene conto siano proprio i compositori. Anche il duo australiano composto da Matteo Zingales (origini italiane) e Antony Partos, già segnalatisi separatamente per interessanti lavori sperimentali come The Hunter, Animal Kingdom e Unfinished Sky, non ambisce certo ad eguagliare l'inattingibile modello herrmanniano; tuttavia, in questo caso, qualcosa di quell'atmosfera meditativa, di quella concentrazione espressiva che univa impeto romantico e pessimismo filosofico, sembra essersi parzialmente trasmessa alla score della nuova versione.
Anche se l'elettronica – che nell'ultimo Herrmann compare in fase sperimentale e in circostanze particolari – qui prevale, si tratta di un utilizzo piuttosto mirato e calibrato, riservato più all'aspetto spettacolare e fantasticante della vicenda, mentre toni più morbidi, sognanti e malinconici vengono adottati per i risvolti psicologicamente più complessi. Resta comunque il fatto per esempio che a Montag viene dedicato il brano omonimo, tra i più “alieni” e radicalmente techno della partitura, che in generale lavora sulla contrapposizione netta di registri: sonorità acute o acutissime, prolungate e lamentose, poste a conflitto con cupe scansioni di bassi e incalzare di percussioni (“Welcome to your new life”). Dunque è una sci-fi-music che pare scaturire dalle viscere dell'inconscio, dalle profondità più oscure dell'animo umano, ma che improvvisamente può aprirsi negli archi a visioni celestiali (“Tailor shop”) o a circonlocuzioni ipnotiche e misteriose (“Clarisse”), facendo proprie anche sonorità inquietanti, già ricercate da compositori delle nuove generazioni, come la britannica Mica Levi di Under the Skin.
Zingales e Partos sono collaudati ed esperti esploratori dei vasti orizzonti offerti dalle tecnologie alla composizione filmica ma va ascritto a loro merito non averne mai abusato e il cercarne piuttosto un impiego costruttivamente espressivo, quasi impressionistico: le fasce ondulatorie di suono (“Attic”, “Stay vivid”), sempre ritmicamente ravvivate dalla percussione (“Is this a trap?”, “Let the fire show begin”), avvolgono l'ascolto in forme concentriche e spiraliformi, in “visioni sonore” orizzontali e primigenie (“This is a problem John”), ma è in alcuni momenti di puro struggimento intimo che la partitura tocca i propri vertici emozionali, come la trasparente melopea di “Lenny the bird” o la vitrea, solenne “Resurrection”, nella quale si affacciano anche alcuni stilemi tipici della musica di Giorgio Moroder.
Il tutto chiuso, beffardamente, da una sorta di “inno della categoria” per questi pompieri-piromani, quel “Salamander ho” dedicato al loro animale-simbolo, famoso perché capace di sfidare il fuoco, e che somiglia terribilmente al celeberrimo inno di Topolino con cui si ricompattano i marines nel finale di Full Metal Jacket di Kubrick... Una marcia trionfale o una marcia funebre?