Tom Clancy's Jack Ryan
Ramin Djawadi
Jack Ryan (Tom Clancy's Jack Ryan, 2018)
La-La Land Records LLLCD1471
22 brani + 3 bonus tracks – Durata: 65'39”
John Patrick Ryan, Jack per amici e nemici, è un personaggio ipertestuale del genere spy-story postmoderno. Nei suoi trent'anni di esistenza, da quando lo scrittore Tom Clancy lo partorì in “La grande fuga dell'Ottobre Rosso” nel 1986, l'analista della CIA ha compiuto un fulminante cursus honorum che lo ha condotto sino a diventare Presidente USA (“Scontro frontale”, 2012), passando da semplice consulente esterno afflitto da paura di volare ad uomo d'azione in trincea su tutti i più roventi scenari internazionali, dal Medio Oriente alla Cina, dal dopo-11 settembre alle minacce del terrorismo planetario.
Il cinema d'azione americano ha altresì trovato nelle complesse e adrenaliniche trame ad alta tecnologia di Clancy un territorio fertilissimo, offrendo ad una bella pattuglia di attori (da Alec Baldwin a Harrison Ford, da Ben Affleck a Chris Pine) il destro per mettersi in evidenza come altrettanti potenziali eredi/concorrenti di James Bond: e, per quanto riguarda i compositori, altrettante occasioni per partiture spavaldamente e robustamente d'azione affidate a maestri come Basil Poledouris, Jerry Goldsmith, Patrick Doyle e James Horner.
La nuova serie tv distribuita da Amazon Video, creata da Carlton Cuse e Graham Roland, coprodotta da Michael Bay e con protagonista John Krasinski, deve sicuramente fare i conti con i mutati gusti del pubblico e con il rapidissimo, bruciante e imprevedibile cambiamento della situazione mondiale alle più diverse latitudini, oltre che con l'inevitabile assuefazione ad un genere in cui azione, intrigo e politica s'intrecciano in formule costrette a essere sempre più esplosive per tenere viva l'attenzione. Sulla carta, il talentuoso compositore de Il trono di spade, con il suo eclettismo multietnico e la sua spiccata propensione per una musica d'assalto, sembrava una scelta ideale: ma Ramin Djawadi non sembra prevalentemente interessato ai risvolti muscolari e militareschi della faccenda. Ad attrarre il 44enne musicista tedesco-iraniano pare essere invece una cifra più malinconica, crepuscolare, intessuta di suoni e ritmi caratteristici di quell'area mediorientale dove Djawadi ha le proprie radici. Lo testimoniano, dopo un Main theme pulsante ma abbastanza generico, le melopee affrante, elegiache degli archi e di alcuni strumenti etnici in “The price of freedom” e “Suleiman's scars”, in cui l'impronta melodica arabeggiante si rivela egemone e psicologicamente vincente sulla ritmica di maniera, ovviamente elettronica e seriale, di pagine come “Cobalt cowboy” o “Paris apartment party”.
Non è la prima volta che Djawadi ci sorprende scostandosi dai clichés parazimmeriani di un pompierismo techno usa-e-getta per scoprire tonalità più ambigue e sfumate (senza dimenticare prove decisamente anomale e intimiste come Il domani tra di noi), e molti tratti di questa score ne sembrano una conferma. La tromba solitaria e spettrale che alza una sorta di “silenzio” composto e solenne in “Greer's gears”, o le dichiarate reminiscenze dal versante più dark di Game of Thrones che affiorano nelle luttuose spirali di archi ed elettronica in “By the grace of Greer”, confermano una concentrazione espressiva particolarmente ricercata e sincera, fondata su un utilizzo dell'orchestra – archi in primis – assai più vasto che in altre prove recenti del musicista. Inoltre, l'estensione di moduli e mezzi della musica mediorientale a pagine di largo sapore impressionistico, come l'incantevole “Heart of Hanin”, con l'onnipresente contraltare di una morbida linea violinistica, o le sinistre “A sarin requiem” e “Morgue that you bargained for”, creano un'atmosfera di tensione ma anche di compresenza e si direbbe di “compassione” multiculturale di grande impatto emotivo.
Va da sè ovviamente che una serie siffatta comporti, musicalmente, anche fasi puramente riempitive (“CIA never sleeps”, “War gamers”) in cui torna in superficie il Djawadi-caterpillar tecnologico e multifunzionale che spesso abbiamo conosciuto: ma poi sbucano squarci di puro lirismo e addirittura di trasognato romanticismo come “Abandonment” o la straziante “Plight of the refugees”: e allora si finisce per riascoltare con altro spirito pure il virile, ma non tronfio e anzi sobriamente doloroso, conclusivo “Jack Ryan – Main theme”, anche questo edificato su una linea melodica vagamente orientaleggiante. Pagina ideale per accompagnare un “eroe” in un tempo nel quale non vi sono più eroi.