Genius
Lorne Balfe & Hans Zimmer
Genius (Id., 2017)
Stagione 1
Milan 399 950-2
18 brani – Durata: 53’03”
Recentemente abbiamo visto il compositore Lorne Balfe, tra i più richiesti della scuderia di musicisti nati sotto l’ala di Hans Zimmer, cimentarsi in prove non proprio esaltanti. Pensiamo nello specifico al secondo Pacific Rim e al sesto (!) Mission: Impossible, nei quali il nostro ha dovuto riempire l’azione con una fragorosa scrittura di sicura efficacia adrenalinica ma di scarso interesse musicale. La prima stagione della serie National Geographic intitolata Genius, dedicata al fisico tedesco, autore della teoria della relatività e (appunto) genio che risponde al nome di Albert Einstein, ha invece stimolato la vena più felice dell’autore, ovvero quella di un sinfonismo più raccolto, rigoroso e tuttavia partecipe che ha fatto la fortuna di lavori come Son of God o la seconda stagione di The Crown, scritti in collaborazione rispettivamente con Hans Zimmer (con contributo della cantante Lisa Gerrard) e Rupert Gregson-Williams.
Per Genius, Balfe compone quasi tutto da solo; “quasi” perché il tema per la sigla d’apertura, posto in chiusura dell’album, è del Maestro Hans Zimmer: vi si riconoscono infatti, come spesso nell’autore, reminiscenze dal “Requiem” di Mozart e una sorprendente incisività dinamica. Ma il respiro, causa anche la stringatezza dei “titoli di testa” televisivi, è davvero corto: si tratta di meno di un minuto di musica.
Nel resto dell’album, Balfe ha al contrario avuto modo, se non di inventare un tema destinato a rimanere nella memoria, quantomeno di dare sfogo alla latente finezza del suo stile, che abbiamo visto irrimediabilmente mortificata nelle ultime fatiche action. Ne funga da esempio già il primo brano: “Truth, Goodness and Beauty”, con le sue tonalità distese guidate dai violoncelli, presto interrotte (poco dopo il primo minuto) da una marcia in 5/4 – scandita da staccati e legati degli archi –, la cui immobilità armonica si tinge qua e là di sorprendenti mutazioni. Queste non trovano invece posto nell’ossessivo “A Powerful Mind”, lungo pezzo condotto stavolta dal pianoforte elettrico, che arabesca placidamente sul registro medio ma intona nelle prime battute violente scariche di staccati sul grave; se il brano risente a tratti negativamente della staticità armonica, l’ingresso in coda della marimba lo rende interessante dal punto di vista timbrico. Per la seguente “Solitude” vale tutt’altro discorso: un gravissimo incipit elettronico viene presto contrappuntato da sinistri fraseggi – sempre artificiali – su toni acuti, e solo nell’ultima parte torna l’orchestra d’archi a definire accorate modulazioni armoniche.
Finora non v’è una traccia uguale all’altra – non è da dare per scontato per un pupillo di Zimmer – e “Pure Mathematics” prosegue sulla stessa strada; tremoli accentati dei violini si stagliano su un freddo ostinato di contrabbassi, mentre il pianoforte si limita a tenui interventi in funzione coloristica; anche qui si deve ai pastosi fraseggi degli archi la conduzione di progressioni imprevedibili e intense, scandite dai timpani fino ad un crescendo rafforzato dagli ottoni. “In Love With The Mind” è una pagina soave e nitida, ancora per pianoforte e orchestra d’archi, con subliminali interventi ambient; diventa ancora più “ascetica” quando subentrano arpa e flautandi dei violini. Qualità analoga possiede il brano successivo, di carattere preludiante, intitolato “Discoveries”, che inizia alle tastiere; poi con le entrate degli archi rende chiara la sua ascendenza bachiana: frasi discendenti di viole e violini si snodano su intense progressioni di stampo barocco; ne risulta un discorso musicale insieme intricato e cristallino che fa della traccia forse la migliore dell’album. “Time Is but A Stubborn Illusion” tradisce ancora derivazioni “classiche” nell’uso del violino solista, e vi si apprezza, dopo l’ansioso crescendo della seconda parte, un inatteso finale in tonalità maggiore. Se gli accenti incalzanti dei contrabbassi in “Solutions” traducono il carattere propositivo suggerito dal titolo della traccia, lo stesso non si può dire di “Patriotic”, dove i glissandi iniziali – nonché il prostrato incedere successivo degli archi su pulsazione elettronica – evocano tutto tranne che il patriottismo. “Noble Thoughts And Deeds” è una pagina dove il contrappunto tra elementi elettronici ed acustici punta al massimo delle proprie possibilità espressive, ma sia nell’adagio iniziale che nella scandita velocizzazione successiva sembra volersi evitare appositamente qualsiasi sorprendente cambio di armonia, rendendo il brano francamente un po’ monotono. Fortunatamente accorre il dissonante “Memory is Deceptive”, dove la componente elettronica si fa sensibilmente più ingombrante e minacciosa, con effetti rasoianti che vanno a disturbare i fraseggi – spesso in glissando – dei contrabbassi; nel finale tornano i disegni in tremolo di “Pure Mathematics”, immersi però in un sound techno-sinfonico oscuro e complesso. “Never Stop Questioning” e “Man of Value” sono meno stimolanti, poiché in esse si ritrovano, in veste meno incisiva, le tonalità chiaroscurali di “Truth, Goodness and Beauty” e “A Powerful Mind”; neppure “Father and Son”, con le sue progressioni di facile effetto drammatico, riesce a raggiungere la carica tensiva delle migliori tracce precedenti. In quest’ultima parte dell’album fa eccezione solo “Imagination”, impressionistica sequela di ardite modulazioni, plasmate da aliene sonorità elettroniche.
Considerando l’ultimo pezzo citato e molte tracce della prima parte del disco, si rafforza in noi l’idea che gli allievi-emuli di Zimmer si sentano a proprio agio e riescano a distinguersi soprattutto quando hanno a che fare con progetti lontani dal genere che ha reso noto il Maestro al grande pubblico, ovvero il catastrofico d’azione. Evidentemente nel cinema adrenalinico per fare la differenza non bastano intelligenza e finezza di scrittura: occorre il beneficio del vero genio.