Maniac
Dan Romer
Maniac (Id. - 2018)
Paramount Music
30 brani + 2 bonus tracks – Durata: 75’44”
Ha preso una piega decisamente stucchevole il dibattito sul diritto o meno di Netflix a configurarsi come “produttore” di cinema e tv a tutti gli effetti. Innescata dall’atteggiamento discriminatorio dello scorso festival di Cannes, e fortunatamente disinnescata dalla Mostra di Venezia, che i film di Netflix li ha presentati e addirittura premiati, la querelle sulla piattaforma Internet fondata nel ’97 a Silicon Valley da Reed Hastings e Marc Randolph sembra beatamente ignorare la rivoluzione che negli ultimi anni ha attraversato il mondo degli audiovisivi, e in particolare quello dei supporti, con l’introduzione dei nuovi media. Netflix è dunque oggi un produttore e distributore come altri, con l’ovvio vantaggio di una maggiore flessibilità nell’offerta, che consente di mettere sul mercato prodotti cinematografici e serie televisive di eguale qualità, favorendo quella simbiosi tra le due destinazioni grazie alla quale sempre più spesso annotiamo come il miglior “cinema”, ultimamente, sia quello che si realizza per la televisione.
La miniserie Maniac, rifacimento di una precedente e omonima serie norvegese, ideata e diretta da Patrick Somerville e dal regista e sceneggiatore statunitense Cary Fukunaga (che al cinema ricordiamo per i blasonati Sin nombre, Jane Eyre e Beasts of no nation e in TV per l’applaudita serie True Detective), appartiene senz’altro a questa categoria, merito anche – e non piccolo – del lavoro musicale di Dan Romer. Poliedrica figura di produttore, cantautore e compositore cinetelevisivo californiano, Romer è qui alla sua terza e più ambiziosa collaborazione (dopo il corto Sleepwalking in the rift e Beasts) con Fukunaga, di cui condivide il penchant per un’ironia distaccata, venata di grottesco, e per uno stile di racconto ellittico, allusivo e a tratti raggelante. Stile ideale per la vicenda di due giovani (Emma Stone e Jonah Hill), perfetti sconosciuti e accomunati dalla depressione, che decidono di sottoporsi a un bizzarro esperimento farmaceutico in grado (forse) di risolvere i loro problemi..
Musicalmente, diciamo subito che sembra di stare dalle parti del Cliff Martinez di Soderbergh o, in parte, del Clint Mansell di Aronofsky: con il surplus, tuttavia, di un umorismo sonoro a tratti debordante e beffardo. La partitura di Romer ricerca infatti minuziosamente un linguaggio stravagante, giocoso, marionettistico, assimilabile ad un minimalismo insistito e autoironico, che pare quasi forzarne le coordinate in direzione caricaturale.
Ticchettii, “clic”, scampanellii vari dilagano, come se fosse onnipresente un invisibile metronomo, sin da “Out of nothing. Everything” in una scrittura abilmente mixata tra orchestra e elettronica, nella quale passaggi solistici del cello su saltellanti pizzicati convivono con celestiali suoni “alieni” (“Lost without connection”), evocando visioni di sapore misticheggiante (”The A Pill”), manipolazioni vocali che di colpo ci riportano al Donaggio di Horror Puppet (“Metal tears”), parentesi “ambient” dalla fisionomia minacciosa basati su note tenute o lunghi pedali (“Blind spots”).
In mezzo a questa sarcastica e un po’ forzata sarabanda di sberleffi e virtuosismi tecnologici e strumentali sicuramente brillanti (“A quest to connect”, con i suoi staccati dei legni molto “desplatiani”, ne è una sorta di manifesto) , Romer riesce però anche a catturare i momenti drammatici della vicenda in pagine improvvisamente acquietate sul fronte ritmico e felicissime su quello melodico, come “Force of nature”, che si allarga in un adagio dapprima solare, poi misteriosamente notturno, tornando a porre gli archi in primo piano; e ancor più la siderale “Love unconditionally”, qualcosa tra Vangelis e Brian Eno ma supportata da una tangibile partecipazione interiore, o “Where I’m supposed to be”, che chiama in causa armonici, arpa, ottavino e celesta in un dialogo ultraterreno; o le successive, riflessive, “The fate of the world” e “Back for revenge”, tutte basate sul lento e accigliato fraseggio degli archi in quelle che sono forse le pagine più neoclassiche della partitura.
Naturalmente, in un lavoro così ampio, non mancano momenti ripetitivi, e non sempre la ricerca della bizzarria a tutti costi produce l’effetto originale desiderato; ma la veloce, elettrica, incisiva spensieratezza dell’insieme combinata alla repentina concentrazione espressiva di alcuni momenti sortisce un cocktail estremamente piacevole e a suo modo originale. Risultato non da poco, e piccola medaglia musicale in più sul petto di Netflix.