Vita di Michelangelo & Eleonora
Bruno Nicolai
Vita di Michelangelo (1964)
Kronos Records KRONGOLD007
36 brani – durata: 75’08”
Bruno Nicolai
Eleonora (1983)
Edipan PANCD2507
23 brani – durata: 39’38”
I
Nacque a Roma il 26 maggio 1926, da Giulio Cesare, tipografo, e da Gina Ottaviani. Studiò pianoforte con Aldo Mantia e composizione con Goffredo Petrassi e Antonio Ferdinandi al Conservatorio di S. Cecilia a Roma, organo con Ferruccio Vignanelli al Pontificio Istituto di musica sacra. Compositore, pianista, organista, direttore d’orchestra ed editore, dal 1950 al 1964 collaborò, come pianista, organista e clavicembalista, con l’orchestra dell’Accademia di S. Cecilia e con l’orchestra sinfonica della RAI di Roma; nello stesso periodo fu maestro sostituto nelle stagioni di opere da camera al teatro La Cometa di Roma. Negli anni Ottanta insegnò armonia e composizione alla Scuola comunale di musica di Frosinone e al Conservatorio di Bologna.
Così l’incipit dell’accurata voce che Claudia Caneva (docente di storia della musica ed estetica musicale presso l’Istituto di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” e la facoltà di Teologia all’Università Pontificia Lateranense) dedica a Bruno Nicolai nel Dizionario biografico degli Italiani Treccani (http://www.treccani.it/enciclopedia/bruno-nicolai_(Dizionario-Biografico)/). Un’eccezione nella penuria di fonti – cartacee e non - su questa stimolante non meno che intrigante figura di compositore “nell’ombra”. Per le prime, abbiamo ancora un profilo di Franco Abbiati nel quarto volume della sua Storia della musica, un articolo di D. Salvatori su “Il Messaggero” del 26 agosto 1983, un intervento di Claudio Fuiano su “Il Giaguaro Magazine” nel 2005, e poco più (chi scrive, ricorda un’intervista degli anni Ottanta, in inglese, su “Soundtrack”, magazine diretto da Luc van de Ven); oltre, naturalmente, alla voce di Ermanno Comuzio nel suo Dizionario ragionato dei compositori cinematografici e una breve nota di Sergio Miceli nel suo Musica per film. Non va troppo meglio in Rete, un profilo sul sito della EDI-PAN, annotazioni qua e là disperse, nessun sito ufficiale, nessun filmato (interviste, recording sessions…); abbonda in compenso, e per fortuna, il materiale audio, e si possono reperire opere anche molto rare e fuori catalogo. Insomma, se non un buco nero, una nebulosa assai sfuocata, un personaggio avvolto entro un’aura di mistero e di leggenda. E una figura di spicco entro il panorama musicale italiano del secondo Novecento per il valore, l’ampiezza e l’eclettismo delle sue composizioni che spaziano con disinvolta libertà dalla musica applicata a quella “assoluta”, dal repertorio leggero a quello classico ed anche (e molto) sperimentale. In quest’ultimo settore fu attivo sia nel “fare musica” (“Quattro odi di Orazio” per baritono e 9 strumenti, 1951; “Ouverture per orchestra” dell’anno successivo; “Sinfonia per 8 strumenti” da lui diretta nel 1968 al XXVII Festival di Musica contemporanea presso la Biennale di Venezia; per non dire delle ricercate – ed ostiche - arditezze presenti in molta sua musica o per sonorizzazione – Dimensioni sonore - o applicata –si riascoltino il lato B de Il conte Dracula o certe partiture thriller per appurare a quali livelli di astrazione e rarefazione melodico/timbrica fosse in grado di pervenire, e con quanto coraggio in un ambito ove la ricerca di soluzioni meno scontate e gradevoli è ostracizzata da produttori e registi, timorosi di pregiudicare gli incassi con proposte anche solo minimamente distanti dalle abitudini audiovisive acquisite; non risulta peraltro la partecipazione del compositore a Nuova Consonanza), sia come diffusore della “musica d’arte contemporanea”, negletta e snobbata, fondando nel 1966 il Gruppo di musica da camera per la musica contemporanea, nel 1977 l’associazione “La musica” e nel 1985 la rivista “La musica” attiva sino al 1988. Né va dimenticata la creazione dell’editrice EDI-PAN, etichetta di nicchia che vanta un cospicuo catalogo di musica dal Medio Evo al secondo Novecento senza escludere il repertorio popolare, il jazz e le partiture per il cinema, il tutto con pari dignità. Dunque non solo compositore, ma organizzatore e promotore di un comparto della musica indigesto a molti eppure espressione di una modernità vivace e baldanzosa. Da non omettere, in fine, l’intensa attività direttoriale e delle proprie composizioni e di quelle di illustri colleghi quali Rota, Morricone, Rustichelli, Bacalov ed altri. Tale bagaglio di esperienze ed attivismo inesausto, supportati da una preparazione di prim’ordine e da una sensibilità non comune, spiegano ad abundantiam la qualità ben più che alta delle sue partiture anche nell’ambito applicato, ove più forte è il rischio di adagiarsi nel “mestiere”. Per il teatro, per il cinema, per la televisione lavorò molto; e qui si dischiude un universo di suoni, di modi, di colori, di generi, di timbri, di ritmi dal fascino inebriante e connotato: Nicolai lo riconosci alle prime note e, quanto alle “somiglianze” con Morricone, di cui si dirà, “piedi di piombo”. Nulla purtroppo è rimasto delle sue musiche di scena (per Guido Salvini, Luchino Visconti, Franco Zeffirelli, Silverio Blasi, Giorgio Strehler, Mario Ferrero), mentre permane qualche testimonianza degli allestimenti scenico-acustici per l’Istituto nazionale del Dramma antico (di Ecuba almeno in un rarissimo Lp della Gemelli, 1971 – ma le musiche sono del 1962; niente del Filottete, 1959, e de Gli uccelli, 1964, in cui utilizzò le Ondes Martenot). Poi, il cinema. Davvero poco agevole ricostruire con un minimo di esattezza la musicofilmografia del compositore, in assenza di un sito ufficiale e di informazioni attendibili. Anzi, in Rete circolano grossolani errori, come ad esempio nel sito soundtrackcollector.com, dove si mescolano in deplorevole confusione le pellicole musicate dal maestro e quelle per le quali si limitò a dirigere la musica composta da altri; in compenso, mancano alcuni titoli di certa attribuzione. La prima committenza dovrebbe risalire al 1951 per Robinson Crusoe, il naufrago del Pacifico di Jeff Musso e Amasi Damiani (in collaborazione con Ferdinando Candia, direzione musicale di Nino Bonavolontà) (https://www.cinematografo.it/cinedatabase/film/il-naufrago-del-pacifico/5568/), cui seguono nel 1955 Il conte Aquila di Guido Salvini e nel 1964 Il pelo nel mondo insieme con Nino Oliviero (edizione accresciuta Beat Records 2019) (1). Da lì in poi la sua attività di compositore cinematografico s’impenna e prosegue sino all’anno della morte. Tuttavia il periodo d’oro per quantità e qualità resta quello compreso tra la seconda metà dei Sessanta e l’inizio degli Ottanta, da Vita di Michelangelo a Cammina cammina. In seguito, scrisse sempre di meno, per lo più per piccole produzioni televisive e film di scarsa circolazione e notorietà (Racconti di donne, Andrea Bianchi 1987; Pigmalione 88, Flavio Mogherini 1988; Ombre d’amore, Alessandro Ninchi 1989; A la poursuite de Barbara, Jess Franco e Jean Rollin, 1991; Le perversioni degli angeli, Andrea Bianchi 1991). Desumiamo i dati da IMDB e altri siti, senza pretesa alcuna di esattezza. Tuttavia ricerche incrociate (in particolare Poppi-Pecorari) confermano in parte almeno le attribuzioni. Di certo ci si muove su un terreno scivoloso, una terra di nessuno inesplorata e non facilmente percorribile. La mancanza di una filmografia/discografia ragionata si sente, sarebbe indispensabile mettere ordine in una congerie di notizie che sovente si smentiscono a vicenda, e ciascuna mancante di qualche pezzo, o con titoli fasulli (2). La conclusione a cui si perviene allo stato attuale delle conoscenze è che il nostro cinema nel decennio Ottanta-Novanta si è precluso l’apporto di un compositore tra i più capaci e suggestivi, segregandolo negli scantinati di modesti sceneggiati tv e di film inconsistenti ed anonimi. Fortuna che negli anni ruggenti gli fu riservato un posto in prima fila, tanto che il suo è tra i nomi imprescindibili di quella stagione, e la sua musica appare oggi più che mai “obbligatoria” per i cultori della materia. Spy story, western, thriller, horror – ovvero i “generi” con la maiuscola - viepiù brillarono alla luce incandescente delle sue note. Ma anche qualche commedia sexy come il trashissimo (almeno nel titolo) Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda o l’improbabile La vedova inconsolabile ringrazia quanti la consolarono (1972 e 1973, entrambi di Mariano Laurenti; per il secondo Nicolai compose un a suo modo imperdibile “Tango del cu fu?”, atroce nel testo, interpretato pedestremente da Pino Ferrara, ma con orchestrazione stilosa e raffinata), e pellicole di guerra e in costume e storiche e mondo movies ed anche il lacrimamovie di Ramon Fernandez El Cristo del Océano (1971) ed altro ancora. Memorabili le collaborazioni con Alberto De Martino (cui pervenne tramite la mediazione morriconiana), Sergio Martino, Giuliano Carnimeo, il regista dai mille nomi Jess Franco (bel fiore all’occhiello; Tordini elenca nove titoli dal 1966 al 1978 e riporta una dichiarazione molto positiva di “zio Jess”, che annoverava Nicolai tra i suoi migliori collaboratori) (3); con Sergio Sollima un incontro fugace per Corri uomo corri (1968), un solo titolo che ne vale diecimila; Jean Luis Trintignant e la moglie Nadine Marquand lo richiesero, Ermanno Olmi lo ingaggiò nel 1983 per Cammina cammina, altro fiore all’occhiello nell’ambito di un cinema agli antipodi di quello di Franco.
In un contesto che vedeva i compositori più prestigiosi, da Rota a Morricone, da Ortolani a Piccioni, da Carpi a Cipriani, spartirsi equamente tra cinema e televisione, anche Nicolai conseguì la sua parte di gloria nel piccolo schermo. Allora gli sceneggiati (o teleromanzi come si era usi denominarli con bel neologismo – evitiamo per carità di patria di chiamarli “serie”, “miniserie”, “fiction”: dizioni successive di una “modernità” che è a ben vedere un pesante regresso qualitativo, e ancora una volta il senso profondo delle cose è nel loro nome) RAI – Mediaset & C. arriveranno dopo -, nell’ambito di una fruizione domestica e senza pretendere di concorrere con il cinema nelle sale, si proponevano come autonoma modalità d’intrattenimento con belle storie (“originali televisivi” o trasposizione divulgativa di classici della letteratura e del teatro), buoni attori, regie attente, maestranze di squisito artigianato e musiche da antologia. Nicolai ne firmò una quindicina, da Il malato immaginario (Silverio Blasi, 1963) a La coscienza di Zeno (Sandro Bolchi, 1988), impreziosendoli con le sue note. Che cosa sarebbero Caravaggio (Silverio Blasi, 1967), Geminus (Luciano Emmer, 1969), Come un uragano (Silverio Blasi, 1971: bellissima e ancora impubblicata score se non la canzone “Diana” dei titoli di coda), Il commissario De Vincenzi (Mario Ferrero, 1974-1977: non c’è Montalbano che tenga), La dama dei veleni (Silverio Blasi, 1979; inedita ancora purtroppo, ascoltate i titoli di testa con percussioni, organo, pianoforte martellato, archi, e stupite) senza quegli abiti d’alta sartoria musicale che il sapiente artigiano confezionava su misura ad esaltare lo splendore di opere le quali grazie ad essi giungevano al beato compimento? Vita di Michelangelo ed Eleonora sono altri due titoli importanti e la loro riedizione in CD offre la possibilità di un apprezzamento completo.
E tuttavia, prima di occuparcene, sia ancora concessa qualche considerazione su di un aspetto fortemente legato alla biografia e all’opera del compositore, vale a dire il rapporto con Ennio Morricone. I due nomi si implicano a vicenda tanto sul piano oggettivo degli eventi quanto sull’altro, soggettivo e fluttuante, della nostra memoria. Amici e compagni di studi, entrambi diplomatisi in composizione con Petrassi: medesima scuola, identica formazione all’ombra di uno dei maggiori musicisti italiani e non solo. Era nella logica delle cose che il legame si protraesse nell’ambito lavorativo. E dunque, Morricone lo chiamò spessissimo a dirigere le sue composizioni. Quante volte abbiamo letto musiche di ENNIO MORRICONE dirette da BRUNO NICOLAI, quasi un mantra. In un paio di casi i ruoli si ribaltarono, Morricone diresse le musiche di Gentleman Jo… uccidi (Giorgio Stegani 1967) e Zenabel (Ruggero Deodato 1969). Poi ci sono i film di De Martino, in parte cofirmati (O.K. Connery, 1966; Dalle Ardenne all’inferno, ’67; Roma come Chicago, ’68; Ci risiamo, vero Provvidenza?, ’73; L’anticristo, ’74). Controverso il caso de Il mercenario (Sergio Corbucci, 1968): nei titoli di testa è enunciato a lettere patenti musiche di Ennio Morricone e Bruno Nicolai, e tuttavia nelle varie edizioni discografiche il secondo viene accreditato unicamente come direttore d’orchestra, anche se… (vi torneremo a breve). Non si deve peraltro pensare ad una scrittura “a quattro mani”, piuttosto ad una ripartizione dei compiti: ciascuno scriveva la propria musica, certe somiglianze di superficie rendevano quelle score omogenee. Qui però spunta l’altra questione, interessante non meno che contorta e malagevole, delle vere o presunte somiglianze dei rispettivi stili musicali. Ora, se certe similarità sono innegabili, è anche vero che soffermarvisi troppo non rende giustizia né all’uno né all’altro. Sì, talune somiglianze sono impressionanti, come in “Processo” (El conde Dracula, Jess Franco 1970), che ricorda moltissimo il Barbablù morriconiano (Edward Dmytryk e Luciano Sacripanti 1972): quel cembalo, quella melodia (qui più esagitata, in Barbablù più lenta e sinuosa). Occhio alle date però, il film di Franco è anteriore, chi ha preso da chi? Un altro riscontro forte è il “Theme de Juliette” (Defense de savoir, Nadine Trintignant 1973) che richiama “Chi mai” (Maddalena, Jerzy Kawalerowicz 1971): qui Nicolai è influenzato dal collega. Ancora, “Duello” (Corri uomo corri, Sergio Sollima 1968) ricalca il brano “La resa” scritto da Morricone per La resa dei conti (Sollima 1967) nell’organico (trombone, coro e orchestra), nel ritmo e in qualche accostamento accordale. Non si tratta di veri e propri rifacimenti, tuttavia di riprese assai vistose di brani precedenti dell’uno o dell’altro e sottoposti a restyling, aumentazioni, diminuzioni, salti di note. In altri casi le similitudini sono più generiche, tira un’aria di famiglia che non esclude la diversità, ad esempio in alcuni western come Django spara per primo (Alberto De Martino 1966), morriconiano ma con juicio (non tutti la pensano così: Roberto Pugliese lo liquida come “brutta cosa morriconiana di Nicolai”) (4) ed anche il summenzionato Corri uomo corri, il cui tema portante “Espanto en el corazon” sia cantato sia strumentale prevede soluzioni autonome rispetto al modello; o nei thriller ove percorre vie apparentate e tuttavia ben sue. In altri casi ancora si può parlare di piena autonomia. Lo score di 100.000 dollari per Ringo (Alberto De Martino 1965) è particolarissimo: a parte la “Ballata per Ringo” – accomunata, più che a Morricone, al flavour del western italiano -, il resto si divide tra atmosfere “eroiche” quasi da peplum e climi onirici insoliti. Per I giorni della violenza (Al Bradley/Alfonso Brescia 1967) il sound è più americano (un Bernstein rivisitato) che italico. E certi passaggi di El Cisco (Sergio Bergonzelli, 1966) fanno pensare a Goldsmith… Negli spy movies poi troviamo melodie e ritmi che non possono essere sempre detti “morriconiani”. Siamo insomma di fronte ad una stessa medaglia con facce differenti. Per un’analisi precisa occorrerebbe un tecnico e chi scrive non lo è. Tuttavia, generalizzando, si può affermare che, nell’insieme, la musica dei due, pur con evidenti somiglianze, si distingue per alcuni aspetti, tra i quali la timbrica degli archi, l’utilizzo di clavicembalo ed organo, il trattamento corale. Un caso emblematico è Il mercenario, già ricordato. La musica è ben morriconiana, tuttavia quella che udiamo nei titoli di testa, la “Bamba vivace”, ci pare più Nicolai che Morricone (non per niente raccoglie echi di “Espanto en el corazon”). Dunque, i due si possono distinguere, ed entrambi risultano necessari; non repliche incrociate ma presenze musicali vive e definite, frutto di un clima, una stagione particolari ed irripetibili.
Non possiamo concludere questa sezione introduttiva senza accennare all’interruzione del rapporto professionale tra i due. Il Mosé (Gianfranco De Bosio 1975) è l’ultima partitura morriconiana diretta dal collega. Poi le strade divergono (5). Molto si è detto, e ricamato, su questa cesura. Occorre peraltro attenersi alle fonti documentate, tutto il resto è “sentito dire” privo di riscontri oggettivi, quando non pettegolezzo fantasioso. E l’unica sorgente certa sono le parole di Morricone, che più volte ha espresso stima e affetto: “Nicolai era un grande amico e mi manca”, “grande musicista e amico” (6); al punto da assumere in qualche caso lo pseudonimo di Leo Nichols in suo onore (“Leo Nichols è un omaggio al maestro Bruno Nicolai, la cui figlia si chiama Lea”) (7). Sul divorzio, parole limpide ed inequivocabili. Alla domanda “Ti sei mai servito di collaboratori?”: “Mai, è un principio morale assoluto. Purtroppo quando c’è stata la collaborazione con Nicolai – ed è una delle ragioni per cui l’ho fatta finire - qualcuno credeva che lui mi aiutasse in qualcosa; mi aiutava soltanto nel dirigere, arrivava in studio all’ultimo momento, la partitura non la conosceva. No, assolutamente nessuna collaborazione” (8). Più in esteso, “[…] vorrei chiarire i termini di questa collaborazione una volta per tutte, poiché durante gli anni circolarono voci inesatte […]. L’autore di un articolo che ho letto recentemente, per esempio, sostiene che la nostra amicizia si sarebbe incrinata proprio a causa di queste collaborazioni. Qualcun altro scrisse che arrivammo addirittura a controversie legali per accertare la paternità di alcune soluzioni stilistiche comuni… altri fecero passare Nicolai come il mio «aiutante» segreto, quello che scriveva certe mie partiture. Tutte cose infondate, frutto di invenzioni giornalistiche! Io ho sempre scritto le mie partiture da solo, dall’idea primaria all’ultima finitura, all’orchestrazione. Inoltre, non ci fu mai nessuna causa perché non bisognava accertare proprio niente: fra me e Bruno tutto fu sempre trasparente e alla luce del sole! [Morricone racconta perché alcuni film di De Martino furono musicati in parte da lui e in parte da Nicolai]. Dopo L’Anticristo, un altro regista contattò Bruno per avere la coppia Morricone-Nicolai. Ma io non volevo creare un marchio alla «Garinei e Giovannini», mi sembrava sconveniente sia per la carriera di Bruno che per la mia: si lavorava in due e si guadagnava la metà. Chiarii immediatamente con lui il mio punto di vista e aggiunsi che secondo me ognuno avrebbe dovuto prendere la propria strada. Di comune accordo seguimmo questa linea; ma la nostra amicizia è rimasta sempre intatta e immutata” (9).
II
Vita di Michelangelo ed Eleonora, rispettivamente del 1964 e 1973, sono due “teleromanzi storici”, eredi di una tipologia narrativa rigogliosa in Europa e in Italia durante il periodo romantico e proseguita con buon seguito di lettori sino a Il nome della rosa e al recente (e, a detta degli storici, pieno di strafalcioni), Mussolini figlio del secolo. Si tratta di ricostruire, romanzandoli, eventi e personaggi di un’epoca definita (l’Ettore Fieramosca di Massimo d’Azeglio, il Marco Visconti di Tommaso Grossi); oppure una vicenda d’invenzione collocata entro un contesto preciso (il Seicento de I promessi sposi, lo sbarco dei Mille e le sue conseguenze ne I Viceré o Il Gattopardo). Nel primo caso il dato storico è esplicito, dichiarato; nel secondo, cornice e sfondo ricostruiti con maggiore o minore veridicità e serietà. Cinema e televisione hanno ripreso quegli schemi (più in generale, la forma-romanzo) transcodificandoli nel loro linguaggio “immaginoso”. Per limitarci al piccolo schermo, Marco Polo (1982-83) e Cristoforo Colombo (1985) fra gli innumerevoli titoli. In Vita di Michelangelo la storia è presente in diretta, ricostruzione della biografia del grande artista rinascimentale; Eleonora è più vicino alla narrazione ottocentesca che vede appunto personaggi “finti” operare all’interno di fatti e idee storicamente obiettivi – nello specifico, la Milano della prima metà del diciannovesimo secolo tra moti quarantotteschi e fremiti scapigliati. Li dirige entrambi Silverio Blasi, con il quale Nicolai stringe un sodalizio che dai primi anni Sessanta giunge sino al 1987 con il tv movie L’ingranaggio (fonte: https://www.imdb.com/title/tt0186236/fullcredits?ref_=tt_cl_sm#cast). Vita di Michelangelo (tre puntate dal dicembre 1964) esemplifica la vocazione pedagogica e divulgativa della tv di Stato di allora: far apprendere, attraverso i modi della “finzione”, arte, storia, letteratura e teatro intrattenendo, divertendo e insieme educando, come si sarebbe detto un tempo, “al bello e al vero”. Tant’è che lo sceneggiato alterna – cosa insolita per il periodo - parti documentaristiche sulle opere più celebri a ricostruzioni filmate rinvigorite dall’interpretazione massiva di Gian Maria Volonté.
Verrebbe da definire “michelangiolesca” la partitura: non tanto per enfasi e magniloquenza, ché anzi il tono generale è sobrio e all’insegna d’una “quieta grandezza” winckelmaniana; piuttosto per la mole dei materiali, la ricchezza delle idee, la sapienza delle variazioni e tonali e melodiche e timbriche. Ne rende ragione l’edizione completa del 2014 della maltese Kronos (occhio al nome) con 36 brani, ovvero i 21 del precedente vinile Edi-pan (1982) più altre 15 tracce inedite null’affatto superflue, con linear notes del mentore Godwin Borg ed ovviamente in tiratura limitata (500 copie). Va in primo luogo dato merito al compositore di essere sfuggito all’insidia del (neo)classicismo precotto e della parafrasi diligente e noiosa a favore di un commento sì filologicamente scrupoloso ma anche romanticamente improntato; dove con “romanticismo” si dovrà intendere quel quid di lirico e/o eroico che dona colore alla classicità sovente anodina quando ricostruita a posteriori. Citata quest’ultima a piene mani e tuttavia rinsanguata da robuste iniezioni di pathos: mai urlato, sotto controllo sempre (appunto) eppure urgente sotto la compostezza della forma. Ne è prova il “tema di Michelangelo”, designato col nudo nome dell’artista, che percorre l’intero score in pluralità di varianti ed anche viene inserito in altri momenti in funzione di trait d’union. Melodia grave ed elegiaca con punte di grandiosità, per archi e piccole percussioni in sfondo (“Michelangelo”), per soli archi (“Michelangelo #3), con fiati dapprima solisti poi in splendido dialogo con oboe ed archi (“Michelangelo #2”), sospensiva con archi oboe ed arpa (“Seq. 6”), con ottoni smorzati (“Seq. 9”). Il leitmotiv acquisisce nuovi colori quando viene “montato” su altre basi musicali come in “Savonarola” ove (contrabbassi e celli) si innesta su di un organo vibrante che apporta note di cupa solennità, pagina vigorosa come i veementi sermoni del domenicano. In “Seq. 1” lo ritroviamo per fagotto e sfondo remoto degli ottoni (forse tube), astratto e sospeso, seguito da coda drammatica con grancassa e fiati, quasi una musica d’azione. La ripresa poi qua e là di frammenti tematici dello score fa del brano una densa sintesi del medesimo. Torna in “Seq. 8”, dopo un’apertura dei fagotti dialoganti e dei fiati e accenni di danza, con ottoni e poi organo solo, meditativo e chiesastico. In “Seq. 10” è per solo fagotto, preceduto da fiati onirici e squilli festosi delle trombe. In fine “Seq. 12” vede una ripresa per archi e chiusa con i timbri scuri dei contrabbassi. Sin da ora possiamo individuare la specificità di un lavoro che, pur restando entro l’ambito tonale, accoglie le inquietudini e le sottigliezze della musica novecentesca e non si adagia nelle armoniche plaghe di un Rinascimento peraltro più ideale che reale. Non mancano per contro pagine più riposate, collocate anch’esse tuttavia in un’indeterminatezza che conduce ad un’attenuazione del significato a favore del significante. Come in “Pastorale”, momento idillico non stereotipato con corno, flauto, arpa ed oboe, ripreso in “Pastorale II” con il fagotto in luogo del corno e la soppressione dell’oboe. Il locus amoenus svapora nel dialogo incorporeo degli strumenti che vivono a sé e di sé, desemantizzati: ovvero, la musica realizza di non essere tenuta ad esprimere alcunché e, se e quando lo fa, non è intenzionalmente. “Infanzia” è melodia pacificata ed immemore per flauto, arpa, oboe, semplice e profonda come il “tempo sospeso” della prima età. “L’aurora” con gli archi malinconici sull’arpa offre belle aperture lente ed introspettive. “Il giorno” si risolve in sobria danza di corte. “Seq. 2” con contrabbasso, archi turgidi e flauto mescola pause di quiete e sprazzi di solennità. “Chiostro”, con archi vari in dialogo sommesso, induce un clima raccolto, “claustrale”, estraneo al tempo. Maggiore consistenza negli esercizi virtuosi di “Rustica”, danza rinascimentale con legni, cadenze dell’arpa e qualche fiato; “Gagliarda” (come da titolo; archi, fiati, flauto); “Seq. 5”, altra danza probabilmente con strumenti d’epoca, forse cennamella o ciaramella, e poi flauto con ritmo scandito dall’arpa.
Una sezione cospicua è il “commento” ad alcune opere dell’artista toscano. Qui l’impegno del compositore è massimo, e maiuscoli gli esiti. La musica si misura con le arti figurative in un’epica gigantomachia e perviene a pagine di plastica efficacia. De “Il giorno” e “L’aurora” – due delle quattro allegorie sulle tombe di Lorenzo e Giuliano de’ Medici - abbiam detto. Ecco poi il “Mosé”, ove l’introduzione con i fiati in sordina prelude ad una melodia espansa per archi, melanconica e pensosa, con momenti sospesi sempre dei fiati – sono proprio questi ultimi, qui e altrove, a travasare nella partitura un tocco di trasognata modernità. Ecco una splendida “Madonna col bambino” con le aperture mistiche dell’organo solo in corale e poi sfumature elegiache degli archi gravi e delicati, soli dapprima e in seguito sottofondo all’organo (un esempio della malinconia “romantica” di cui si diceva). “I dannati” è solenne e drammatico, scultoreo con contrabbassi e tromba su percussione. “Bacco”, per arpa e archi, è fastoso e vitalistico; viene ripreso in “Seq. 14” in versione lenta per archi ed organo con momenti quasi astratti, e “15” con preludio di fiati su borborigmi e arpa, pomposo e terminale (chiude le sequenze e, idealmente, la partitura). Il compositore restituisce nelle varianti la dimensione ambigua della scultura michelangiolesca, messa in rilievo già dal Vasari il quale vi scorgeva “la sveltezza della gioventù del maschio e la carnosità e la tondezza della femina”. “La Pietà” è uno dei momenti più alti: per solo coro misto, polifonico, palestriniano e controriformistico ante litteram, brillante esercizio di musica sacra estatica e raccolta. E suona molto Nicolai il timbro così definito delle voci che tornerà in alcuni western. “Le Sibille” procede per frammenti melodici, abbozzi autonomi degli archi e dell’arpa; rarefatto ed onirico, lavora sugli stacchi: appunto come i responsi della Sibilla scritti sulle foglie disperse dal vento che soffiava nel suo antro (così al vento ne le foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla: Par. XXXIII, 65-66). Difficile invero immaginare musica più acconcia per “illustrare” le cinque Sibille (Libica, Persiana, Eritrea, Delfica e Cumana – a quest’ultima fanno riferimento i versi danteschi) affrescate dall’artista sulla volta della Cappella Sistina insieme con i profeti della venuta salvifica di Cristo: i loro occhi fissi sospesi tra speranza e spavento, le loro posture ieratiche e fragili, il loro porsi “esterne” al tempo umano nella loro enigmatica inquietante veggenza. Ne “Il giudizio universale” il musicista dispiega la sua vena d’alto stile: corni, archi e grancassa, interludio più disteso per archi ed arpa, ripresa enfatica e grandiosa. Ne troveremo conferma nei suoi primi western (i più personali): la “Sfida eroica” in Centomila dollari per Ringo (1965) e alcuni momenti di El Cisco (1966).
Bene, il compositore ha raccolto sino in fondo la tenzone lanciata dall’ambizioso soggetto al quale si applica, e risponde colpo su colpo con una mole di musica e grande varietà di registri. Ecco la serenità fastosa, rinascimentale e cortigiana di “Casa Medici” (per archi ed arpa); o l’organo pensieroso e gli archi che abbozzano un bel ritratto muliebre d’epoca (“Donna Vittoria”). In fine, tre eccellenti prove di “musica per film” la più prestigiosa. Il timbro cupo, notturno, degli archi drammaticamente sospesi su colpi di grancassa in “Seq. 3”. I contrabbassi soli di “Seq. 4”, pura suspense degna di Hitchcock, perfetta in qualche gotico/thriller e suggestiva in se medesima. Ottoni rarefatti, corno, trombe e rulli di tamburo in “Seq. 7”. Tre pagine d’atmosfera che infrangono il (presunto) equilibrio rinascimentale e si aprono ai chiaroscuri romantici, alle oniriche tetraggini decadenti.
Rendiamo dunque grazie all’etichetta che per la divina virtù di Kronos ha reso possibile questa operazione d’alta archeologia musicale.
Vera perla di televisione è Eleonora. Per il soggetto di Tullio Pinelli, “patetico” nel significato migliore. Per l’interpretazione di alta classe di Giulietta Masina. Per l’accurata resa d’epoca, costumi, scenografia, fotografia (nominativi irreperibili). Donna della buona borghesia nella Milano di metà Ottocento, Eleonora s’invaghisce del pittore maudit Andrea che le darà parecchi figli e per il quale rompe con il padre e col proprio mondo. Lui prende parte alla scapigliatura, ha altre donne, indulge all’alcool, viaggia, torna e ritorna all’ovile. Morirà ancor giovane – da buon scapigliato -, confessandole di avere amato sul serio solo lei (usato sicuro e garantito). Ella recupera il rapporto col padre e prosegue la sua vita con i bambini avuti da Andrea; di più, accoglierà nella “sua famiglia” anche un giovane nato da un precedente amore di lui. La Masina conferisce al personaggio una fierezza, una forza, una positiva ostinazione lontane dalla predominante subalternità femminile del periodo. Regia pulita e di classe, nessuna concezione al bozzetto, all’edificante, al pedademagogico. Da vedere e rivedere, purtroppo assente in Rete, teche Rai comprese.
Udendo la musica perfetta per l’immagine e per l’ascolto, felicità e stupore invadono: la prima per la gioia che oggi ancora donano quei suoni; la seconda per la coscienza della tanta “musica sommersa”, celata dietro le quinte di titoli e fotogrammi, della quale o si ignora del tutto l’esistenza, oppure viene trascurata per via di preconcetti e chiusure mentali, o per il vizio duro a morire del contenutismo che ci induce a privilegiare – anche nella prospettiva del semplice ascolto - i soggetti forti, le trame avventurose e macchinose, i colpi di scena, la paura, il sovrannaturale e tutto il bric-à-brac del feuilleton e della narrazione di genere: come se, in arte, a contare per davvero fosse il che cosa piuttosto del come. Ma quale musica per una storia familiare, di sentimenti, ed una cornice storica – quella risorgimentale - a rischio della più stucchevole retorica patriottarda? Suoni illustrativi dell’epoca, climi tranquilli e/o patetici, fanfare, rifacimenti più o meno credibili, le soluzioni sperimentate insomma, impersonali e d’impatto emotivo prossimo allo zero? Chi scrive si era accostato all’ascolto con scetticismo, attendendosi uno score in stile, mutatis mutandis, Justine: un lavoro “ben fatto” nel quale il compositore esibisce il suo lato più accademico e correlativamente meno fantasioso; suoni che ristagnano entro le secche distese di un pregresso più assimilato che rielaborato. Invece scopriamo un alto saggio d’inventiva ed una musica pura espressione di bellezza: calda, penetrante, plurima di registri e abbondevole di trovate; elegiaca, epica, lirica, sinfonica, drammatica, intimistica, grottesca, tensiva, comica, tragica, tragicomica; orchestrazione superba, varianti tutte di spicco, qualità alta omogenea.
In prima posizione, come giusto, il tema di Eleonora, contrassegnato dal titolo eponimo. La musica del cinema ridonda di ritratti femminili. I compositori – complici le immagini, galeotta l’avvenenza delle attrici - non si sono risparmiati nel mettere in musica l’interno e l’esterno dell’altra e migliore metà del cielo, l’incanto del volto, la malia delle forme, l’indecifrabile complessità del “femminile”, talora approssimandosi alle soglie del “mistero senza fine bello”. La musica peraltro è donna già come genere sostantivale, e poco conta che i gli artefici del suono siano stati e siano per lo più maschi – per atavici condizionamenti culturali e sociali -; ha, della donna, l’inattingibilità, non le possiedi mai per intero, sfuggono, sgusciano, si sottraggono, si negano, non le comprendi; ingannatrici sempre nella loro simulata disponibilità. E riflettiamo sul livello qualitativo delle poche musiciste: la nostra Nora Orlandi (i suoi sexythriller, i suoi western, tutti degni dei più celebrati maestri di casa nostra), Rachel Portman (quel capolavoro di romantico lirismo che è The Duchess), Mica Levi, della quale è sufficiente ricordare Jackie (tra l’altro, ancora una volta ritratti di donne): certe carezze sonore, certe armonie perturbanti possono nascere solo da un sentire “femminile” al quale i più validi esponenti dell’ottava arte si sono talora avvicinati.
Diciamo subito che quello di Eleonora non è il “tema d’amore” abitualmente inteso; piuttosto uno “studio di donna” a tutto tondo, sfumato e polivalente. Banditi la fastidiosa enfasi romantica e l’affliggente sentimentalismo (le classiche e subdole trappole per topi della musica cinematografica), ecco una melodia sobria, tranquilla verrebbe da dire; pure, sulla levigata superficie piove una dolcezza inquieta, e il piano s’increspa, gli accordi si dilatano come cerchi prodotti da un sasso piombato entro l’acqua immota: e si aprono intensi rapimenti, oscure melanconie. Nicolai ha lavorato molto, e di fino, su questa composizione che è uno dei suoi vertici e si presenta in varianti assai connotate per le quali la dizione “versioni alternative” appare inadeguata e restrittiva. Ogni ripresa sta a sé, innovata nell’organico e nel ritmo, foriera di idee nuove. Il prototipo è lo svolgimento per oboe, archi e pianoforte (traccia 2), tanto conservatoriale nell’orchestrazione quanto rapinoso nelle aperture inconcluse, sempre sull’orlo di un oltre che non si dà. Il ritorno con archi, pianoforte semiscordato e poi fagotto (traccia 6) staglia l’eroina su una dimensione immobile, raggelata nelle forme dell’ieri in qualche stampa d’epoca (un “gusto della stampa” gozzaniano, che tornerà spesso in una partitura che sembra uscire da un vecchio grammofono). Vibrafono/marimba, pianoforte stonato, archi, basso e batteria (traccia 9) conferiscono una nota animata e burattinesca e immettono umori quasi circensi. Ottima la traccia 19 ove il trattamento strutturale, orchestrale e timbrico rivela il maestro d’arte nel significato doppio di “artefice” e di “creatore di bellezza”. Questa “quarta versione” è la più elaborata. Il tema di Eleonora per archi e due pianoforti è preceduto da un ostinato greve e da archi oscuri che preparano un’attesa indeterminata ed apprensiva, e seguito da un’ampia coda con cembalo e fisarmoniche, canto un poco agreste che vanisce in una lontananza antica ed amica, musica che viene dal passato e riempie d’inesplicabile nostalgia. Non v’è chiosa migliore (in vece delle nostre parole approssimative) dei versi leopardiani: […] Ahi, per la via / Odo non lunge il solitario canto / Dell’artigian, che riede a tarda notte, / Dopo i sollazzi, al suo povero ostello; / E fieramente mi si stringe il core, / A pensar come tutto il mondo passa, / E quasi orma non lascia. / Ecco è fuggito / Il dì festivo, ed al festivo il giorno / Volgar succede, e se ne porta il tempo / Ogni umano accidente. […] (La sera del dì di festa, 24-33).
Per la protagonista è pensato anche “Sogno di Eleonora” (traccia 10), pagina introspettiva per organo e violino, ove il primo contrappunta con originalità e crea un persuasivo clima ascetico/religioso. Fondamentale il misticismo onirico dell’organo nella ripresa (traccia 18), linea impalpabile fuggitiva sulla quale piovono le gocce disperse del pianoforte in successione molto lenta che è il tempo ritardato dei sogni. Il versante intimistico, variamente riconducibile ad Eleonora, donna forte e volitiva non meno che dolce ed amorevole, è ancora presente nei brani “Un filo d’erba”, “Pranzo di Pasqua”, “Povertà” (tracce 10, 13, 14). Il primo per oboe, fagotto e orchestra sviluppa una melodia raccolta e delicata con aperture melodiche mirabili - come solo in quei primi Settanta si sapeva fare - e riprende anche taluni momenti del tema di Eleonora, rinverdendoli. Il secondo racchiude tra un esordio ed una chiusa drammatici con cembalo su archi in ritmo un nucleo riposato per fagotto ed archi con belle movenze evocatrici d’armonie d’interni festanti e di dolce quiete familiare. Il terzo vede ancora il cembalo su archi e (forse) carillon entro un clima di mestizia pudica e dignitosa. Più animato “Marcia nuziale” (traccia 11) con violino e orchestra andanti con brio senza esagerare ed organo in retroguardia.
Discorso a sé per “La mia famiglia” (tracce 1 e 17), che insieme con “Eleonora” e complementarmente rappresenta il culmine emotivo della partitura, melodia tra le più indovinate nel fertile pentagramma del musicista romano. Archi dolcemente sincopati (procedimento che segna davvero un’epoca, oggi nessuno vi ricorre più), poi il canto affidato al corno e di seguito all’oboe, melos delicato ma robusto, con accordi che scavano ed un respiro melodico non troppo lungo e però di grande spessore. Si torna ad allora, a quella musica lì, profonda ed esaltante, capace di convertire all’ascolto anche i più renitenti alle suggestioni di Euterpe. Oggi ancora, udendola, si grida al miracolo. Lì è tutta una scuola, una maniera del comporre che rinnovò dalle radici la musica per il cinema, e non solo. Si usciva dalle convenzioni del già sentito, dalla routine della prevedibilità, dalle (s)confortanti abitudini di ascolto, dai melismi tardoromantici, dal sentimentalismo ruffiano, dall’epica strombazzata, dalla suspense riciclata e insomma da tutto un cascame che non deponeva a favore di una musica più che mai “da” film. Ciò che sino a quel momento era stato creato arretrava dinanzi al luccicare di suoni, timbri, accordi mai uditi prima ed impressionanti. Ci ha segnato, quella musica, stigma prezioso impresso a lettere di fuoco entro la carne del nostro sentire marchiata come una cotenna, bruciata, arsa viva e rinata. Quella folgorazione ci ha accompagnati sin qui, magari attenuata e semispenta, riaccesa con potenza da questo “La mia famiglia” che davvero (fuorviati anche dal titolo) non ci aspettavamo così –anche in considerazione di un plot che pareva escludere a priori certi picchi. Invero quei compositori guardavano oltre; senza necessariamente ricorrere a provocazioni e a radicalismi, invece utilizzando le trite note (Amai trite parole che non uno / Usava scrisse Umberto Saba) ovvero la tradizione antica difficile che doveva riscattarsi dal rischio della banalità. L’impegno sul versante strutturale non risulta inferiore a quello melodico, come si può verificare nella traccia 17. La ripresa con fagotto ed oboe acuisce la nostalgia d’una perduta serenità e poi sfocia nella pesante cappa degli archi con timbri scuri, ostinato e rarefazioni oniriche, per ritornare al tema con clavicembalo ed archi in un’aura d’inquieto mistero. Pagina da antologia.
Il registro privato connesso al vissuto di Eleonora non esaurisce le risorse di uno score che sembra non dover mai terminare ciò che ha da dire (che è poi quel che Italo Calvino diceva dei classici). Spicca la pagina epico-lirica “Il Quarantotto”, nobilmente celebrativa senza gigantismi. Corno e orchestra intonano maestosi eppur raccolti, lasciano spazio ad una sessione più mossa con archi in ritmo e ripresa di qualche colore da “La mia famiglia”, poi archi ancora ed echi del corno. La solennità è composta, l’epica smorzata, volte più a commemorare che a celebrare in pompa magna.
Ci si confronta anche con le forme consegnate dalla tradizione, forche caudine obbligate per i musicisti del cinema e fonte di inesauribili imitazioni corrette e noiose del pari, stigmatizzate nell’ironico elenco di Eric Satie: Spécialité de Marches funèbres. Requiem, Messes arrangées pour bals. Le maison se chargedes réparations harmoniques. Trasformation rapide de symphonie, quatours, etc., etc. Musique sérieuse rendue gaie. Morceaux les plus difficiles réduits pour un seul doigt. Mélodies vocales arrangées à deux pianos. Plus de compositions incompréhensibles. La Subtilité à la portée de tous. Sonates réduites, réharmonisées. Notre musique est garantie jouable. “Addio vecchia Milano!” è un valzer brioso ed anche un po’ nostalgico, girandola di figurine colorate sognanti in perplessità. La musica fotografa le forme (im)mobili di una società al tramonto. “Marcetta ragazzi” è un moto sbarazzino con trombette, flauto e modi bandistici: mondo preadulto di corse all’aria aperta, scorribande immaginifiche, tra Gian Burrasca e Giannettino. “La recita” (di fine anno scolastico?) apre una prospettiva tra Collodi e De Amicis con cadenza per banda, fagotti, piccole trombe, flauti e legni vari, effetti fanfara: un’altra veridica “stampa” musicale. Non manca il commiato mortuario: “Funerale”, piccola marcia funebre con fagotti e cupi archi scanditi, brano di una solennità fosca ma anche ironica e grottesca. E in totale grottesco sprofondiamo con “Danza macabra” (traccia 5), stranito “divertimento” con tromboni, fagotto, ottavino, sberleffi del flauto, teoria di burattini deformi e ghignanti; ripresa in “Seq. 4” (traccia 23) ancora più onirica e disagiante, stramba giostra di larve ingabbiate entro un perpetuo moto d’inferno, orride e risibili, comiche e repellenti. Rispetto all’illustre precedente del poema sinfonico di C. Saint Saens (1874), qui abbiamo un approccio meno contenuto, più stravolto ed allucinato, in linea con l’espressionismo del cinema (anche i soggetti più quieti) e della correlativa musica in quegli anni. Se mai, sarebbe stata più godibile una versione estesa con sviluppi, variazioni, riprese. Ma qui il problema è a monte, sono i tempi contingentati di una musica, quella del cinema, assoggettata ad un pesante minutaggio.
E da ultimo, da non credersi, la suspense: psicologica, dei sentimenti, pur sempre tale. Come in “Incomprensione” con archi sospesi, corno, clavicembalo e flauto basso dissonante in clima giallo/thriller e ripresa di alcune note da “La mia famiglia”. Un accenno di quel tema è anche in “Seq. 1” (traccia 20) che vede ostinato e un cembalo arcano, archi rarefatti e fraseggi oscuri del fagotto e sibilanti dei clarinetti, pezzo “atmosferico” per eccellenza. La tastiera potrebbe essere quella del cembalo (cimbalon) ungherese suonato da Leonida Torrebruno (Adios gringo, Barbablù), dalle risonanze enigmatiche e misteriche. In “Seq. 2” ancora il cembalo che ripropone la tenebrosa melodia di “Funerale” seguita da uno sviluppo drammatico con contrabbasso e altri archi e da una successiva più serena apertura con archi e clarinetto. Brano articolato ed esteso (5’ circa) e ricombinazione al nero di taluni cromatismi precedenti. Esplicitamente sospeso “Seq. 3” con ostinato e flauto basso, d’una rarefazione estrema; ad un certo punto è citato “La mia famiglia”. Riconosciamo in questi quattro momenti l’estro orrorifico del compositore, maestro di climi grevi e di spasmodiche attese (il suo contributo ai thriller di Sergio Martino, Umberto Lenzi ed altri appare irrinunciabile), applicati qui alle distonie della quotidianità.
Abbiamo di proposito omesso il nome del convitato di pietra il quale, piaccia o meno, siede a capotavola e impone la sua presenza muta. Più volte ci avrebbe soccorso l’attributo “morriconiano”: ci pareva il termine appropriato per restituire l’influsso profondo di determinate combinazioni di note, di certe aperture, di taluni aspetti timbrici. Ma ci suonava riduttivo ed anche ingiusto, avrebbe comunicato la percezione di una dipendenza, di una derivazione. Di più: avrebbe consolidato l’equivoco, a lungo perdurato e non del tutto dissolto ancora, del “modello”, la premessa aprioristica di un discendere da. Premesso che altro è essere morriconiani altro “morrichini” (il neologismo sprezzante è di Sergio Bassetti), altro imitare altro variare; occorrerebbe qualche volta ribaltare il rapporto, e chiedersi chi abbia attinto dall’altro, e quale il percorso tortuoso delle reciproche influenze (a ciò potrebbe giovare la conoscenza esatta delle date, vale a dire storicizzare gli eventi; operazione davvero problematica nell’ambito cinemusicale ove la confusione e l’imprecisione dominano). La frequentazione, le comuni esperienze di studio, il medesimo maestro, l’operare entrambi - collaborando talora - nel medesimo settore, ha creato un circuito di interdipendenze ed un’ambigua specularità. Ma l’immagine riflessa, si sa, non è se non una replica illusoria, parvenza identitaria e diversità effettiva. La musica dei due è complementare più che convergente, sdoppiamento, associazione e ricircolo continuo. A chi ascolta cogliere alcune analogie sin troppo ostentate per essere semplici copie, e le criptiche differenze, e i prestiti manipolati e i percorsi alternativi di un duplice discorso musicale che approda alla fusione e all’unità. Comunque la si pensi, appare certo che solo Nicolai poteva permettersi di “rifare” Morricone senza rompersi le ossa.
Edi-pan e Gemelli - due tra le etichette più esoteriche, estranee ai grandi loghi ed evocatrici di memorie lontane, quando un nome bastava per ricamarci un mondo - pubblicarono all’epoca due vinili: Edi-pan CS 2016 (17 tracce per 42’ circa), Gemelli ST 10028 (8 tracce, una di 18’ con dialoghi). Nel 2014 l’edizione in CD con l’aggiunta di 6 inediti di peso, in totale 60’ 40” (attenzione però: l’indicazione sul retro della durata di alcune tracce è errata), booklet con fotogrammi in bianco e nero e a colori (Eleonora con Andrea, col padre, con i figli, bella ed elegantissima sempre) che ci ravvivano la memoria di una televisione tanto diversa, ed una fotografia interna che ritrae due distinti e seri signori d’altri tempi, il regista ed il compositore (una delle rare immagini di Nicolai), più le linear notes di Claudio Fuiano con la sinossi ed un breve commento alla musica.
Vita di Michelangelo, Eleonora: due score senza mende, due esempi di “musica del cinema” che è musica e basta. E due conferme del talento di un compositore sconosciuto a molti, assolutamente “impopolare”. Come ha scritto John Mansell, “it is astonishing that such a musical giant’s passing went almost unnoticed and news of his death [agosto 1991] filtered through some months after the event. His passing in my opinion left a black hole in the world of italian film music that has yet to be filled” (10). Dopo un certo numero di incisioni in vinile, consegnate ad un avantieri nebuloso e oggetto di un vero culto del modernariato, a partire dal nuovo secolo si è iniziato a pubblicare (o a ri-pubblicare) su CD congrua parte della musica del maestro; il “buco nero” si viene via via colmando di sostanziose note. Rimangono tuttavia nell’ombra titoli quali Ecuba, Civiltà del Mediterraneo, Liber organum, L’arma meravigliosa, La muraglia asiatica, Tempo sospeso, Rendez Vous, Araldica ed altri, campionario di stranezze e meraviglie; e ancora si attendono le ristampe di Lettere dal fronte e Cammina cammina. Nondimeno, un già consistente patrimonio è ora a disposizione di quanti – scevri da preconcetti - cercano (e trovano) la musica d’arte tra le pieghe di un passato favoloso; musica che “rappresenta per l’uomo il sognato castello, il brivido interiore, la ragione materna, le braccia ardenti del desiderarsi a casa, l’humanum utopico del mondo” (Claudia Caneva, https://www.claudiacaneva.fr/presentazione/9). Parole che si addicono a tutta la “buona musica”, a tanta scritta per il cinema, a quella del compianto maestro Bruno Nicolai per certo.
NOTE
(1) C. Caneva gli attribuisce Mondo cane n. 2 (Gualtiero Jacopetti & Franco Prosperi, 1963), del quale non abbiamo trovato conferma (Nicolai figura come direttore).
(2) Un tentativo apprezzabile di filmografia è in A. TORDINI, Così nuda così violenta. Enciclopedia della musica nei mondi neri del cinema italiano, Roma, Arcana, 2012, pp. 84-85; purtroppo si ferma al 1983.
(3) Ivi, p. 75.
(4) (“Segnocinema” 31, gennaio 1988, p. 59.
(5) Nella monografia di Sergio Miceli si legge però: “E’ poi da segnalare il brano “Sindrome da improvvisazione” per il film di Petri Buone notizie, in cui Morricone coinvolse Nicolai, Battisti D’Amario, Restuccia e Branchi” (Id., Morricone, la musica, il cinema, Milano-Modena, Ricordi-Mucchi, p. 213 n. 69).
(6) E. MORRICONE, Inseguendo quel suono. La mia musica, la mia vita. Conversazioni con Alessandro De Rosa, Milano, Mondadori, 2016, pp. 120 e 47.
(7) E. MORRICONE, Lontano dai sogni. Conversazioni con Antonio Monda, Milano, Mondadori, 2010, p. 130.
(8) Il musicista nel cinema d’oggi. Colloquio con Ennio Morricone, in S. Miceli, La musica nel film. Arte e artigianato, Fiesole, Discanto, 1982, p. 327 (corsivo nostro).
(9) Inseguendo quel suono, op. cit., p. 121
(10) Note allegate al CD Don Giovanni in Sicilia, Kronos Records KRONGOLD 012, 2015